Inaugura giovedì 18 settembre alle 19 la mostra ni Haut ni Bas, che si dispiega attraverso gli spazi LATO e MOO insinuandosi attraverso la città di Prato.
Abbiamo chiesto al curatore Alessandro Gallicchio e ad uno degli artisti esposti di spiegarci qualcosa in più dei lavori proposti.
Descriveresti brevemente il tema della mostra? Da dove e quando è nata l’idea?
Il progetto espositivo, che coinvolge sei artisti internazionali che operano a Parigi e in Toscana, propone una riflessione su concetti quali Antropomorfismo e Informe. L’intento è quello di provare a leggere l’opera d’arte come documento che si svincoli da ogni processo di canonizzazione per esaltare una ricerca libera da precetti. Le molteplici posizioni presentate, che si definiscono come potenziali prospettive di rappresentazione, si situano all’interno del dibattito che vede confrontarsi l’attitudine alla modellazione umana della realtà (antropomorfismo) e l’esaltazione del carattere informe di quest’ultima (informe). All’interno della mostra trovano spazio quelli che possono essere definiti momenti di un “laboratorio riflessivo”, ossia angoli in cui vengono mostrati i materiali dell’analisi teorica. Essi si inseriscono all’interno di un percorso espositivo che viene inteso come circolare, privo di un inizio e di una fine. Per questo sono stati uniti, in un unico evento, gli spazi espositivi LATO e MOO, nonché lo spazio fisico che le separa: la città di Prato. La città viene “messa in mostra” e contribuisce, grazie anche all’esperienza di ogni singolo visitatore, ad alimentare la riflessione critica proposta dal progetto espositivo.
L’idea è nata principalmente da un confronto continuo e stimolante con alcuni degli artisti presenti in mostra ma ha le sue radici nei miei studi di matrice accademica. Ho incrociato pensatori quali Georges Bataille e Georges Didi-Huberman durante i corsi di storia dell’arte presso l’Università di Firenze e, più recentemente, mi sono soffermato nuovamente su queste tematiche in una comunicazione che ho tenuto all’interno di un convegno a Bonn dedicato al tema del canone europeo nelle arti e nella letteratura.
Partendo dal presupposto che viviamo in un’epoca contemporanea che ha ormai messo in atto i pronostici nietzschiani e che sempre più rimanda ̶ se pensiamo per esempio alla tecnologia ̶ un’immagine di creazione (dio) come funzione della somiglianza all’uomo piuttosto che il contrario (antropomorfismo), e che allo stesso tempo vige un’assenza di punti fermi, di certezze imprescindibili (informe). Quanto ritieni che questi aspetti influenzino il mondo dell’arte contemporaneo? L’esposizione è nata con l’intento di affermare una posizione chiara circa la realtà odierna come caratterizzata in maniera peculiare da questi due aspetti, o questi ultimi vengono intesi semplicemente come due tra i molteplici aspetti che si relazionano al sentire e al fare arte contemporanei?
Ritengo che questi aspetti siano solo due delle infinite possibilità di trattazione del contemporaneo. Per contemporaneo non vorrei semplicemente riferirmi alla sfera artistica, intenderei piuttosto parlare di pensiero contemporaneo. Certamente una posizione è chiara: tentare di non aderire alle definizioni ma piuttosto percorrere la via della decostruzione interrogativa di esse. Credo che solo attraverso la ricerca tutto ciò possa divenire reale poiché essa, anche se spinta agli insensati estremi, sia linfa vitale per la società. Sono convinto di tali affermazioni perché innanzitutto credo negli interrogativi, anche quelli all’apparenza privi di senso. Dunque scongiuro ogni sorta di posizione chiara circa la realtà odierna, anzi, ritengo più opportuno provare a vedere le multiple e spero infinite possibilità di lettura di essa. Ecco perché è stimolante, a mio avviso, proporre una mostra a partire da alcuni concetti e tematiche di per sé storicizzati, poiché ognuno di noi, in un determinato tempo e spazio, può apportare nuovi significati al cosiddetto “già visto”, “già sentito”. Per ciò che riguarda epoca contemporanea e tecnologia posso solo fare una constatazione: senza una non ci sarebbe l’altra.
È stato complesso trovare artisti che rispecchiassero il tema? La scelta di quest’ultimo è nata a priori rispetto alle richieste di partecipazione rivolte agli artisti o le due attività si sono svolte e influenzate più o meno contemporaneamente?
Solitamente il tema, almeno per ciò che mi riguarda, nasce in un modo per costruirsi, decostruirsi, virare, ritornare con l’avanzare del tempo. Parlerei dunque di idea, di stimolo iniziale. Questo è nato sicuramente da me, da alcuni interessi personali, tra cui, appunto, il lavoro di alcuni artisti in mostra (molti dei quali veri e propri amici). La scelta degli artisti è dunque insita nello stesso processo di concepimento di un progetto artistico. Naturalmente poi con il passare del tempo si incrociano più o meno casualmente altri artisti e si inseriscono nella mostra. Da lì inizia il dialogo, lo scambio continuo, la messa in questione di alcuni postulati iniziali, per poi arrivare alla scelta dei lavori. Devo ringraziare soprattutto coloro con cui dialogo regolarmente, come Chiara Bettazzi, con la quale quasi ossessivamente, anche se vivo a Parigi, mi confronto. Rachel Morellet è un altro punto di riferimento per ciò che riguarda la visione globale del progetto, Lek M. Gjeloshi invece un compagno di riflessioni infinite. Ibrahim Nasrallah, un amico prima, un artista poi, che ho deciso di esporre per la prima volta, Marie Cousin incontrata invece in una mostra dedicata a giovani artisti a Parigi. Bärbel Reinhard, una professionista della fotografia per la quale avevo già scritto. Insomma, personalità diverse che si uniscono in un tentativo comune, autofinanziato, spinto soprattutto dalla voglia di provare a riflettere e anche da una grande passione. Nomino gli artisti e le relazioni che si creano con loro perché sono appunto queste sinergie che permettono una buona riuscita. Penso inoltre che siano questi i momenti più formativi, i momenti nei quali grazie ad una approfondita discussione realizzi alcune sviste, alcuni errori, alcune imperfezioni. È proprio per questo che cerco di assorbire il più possibile da questi scambi.
ni Haut ni Bas è stato pensato come un percorso espositivo “circolare” che attraversa il centro di Prato: è concepito dunque come un percorso “site specific” o potenzialmente riproducibile altrove?
Per circolare intendo principalmente un percorso espositivo senza un inizio e una fine, che può essere esperito anche frammentariamente. La scelta è dello spettatore, può iniziare da MOO oppure da LATO, può vedere solo MOO o solo LATO, può vedere la vetrina di LATO e quella di MOO e godere della bella città che è Prato. La città dunque è respiro, frattura, dilatazione. In questo spazio ci si può perdere, si può discutere, si può scoprire. Spesso le mostre vengono concepite con un ritmo significante che sembra indirizzare ad una lettura imposta, non vorrei fosse così. ni Haut ni Bas non è affatto “site-specific”, anzi, la mia speranza sarebbe quella di allargare il progetto, pensare anche ad un incremento di artisti e ad una tappa successiva, in un altro luogo, per vedere come questo tentativo riflessivo possa evolversi, svilupparsi e rimodellasi.
Al giorno d’oggi il mondo dell’arte si trova ad affrontare notevoli incertezze: dagli “artistar” superpagati all’appiattimento “democratico” determinato da Internet. Come vedi il futuro dell’arte?
Mi viene da sorridere, forse in reazione ad una domanda che meriterebbe una risposta profetica. Mi limiterò dunque a provare a dare una risposta leggermente profonda, facendo un esempio che mi è caro. Se intendiamo per “artistar” un artista come François Morellet, uno dei più gettonati sia sul mercato che nelle esposizioni internazionali, allora rispondo: viva l’incertezza! Sarà per mancanza di oggettività o per semplice passione estetica, ma penso sinceramente che un artista del suo valore, con le sue quotazioni, non mi disturbi affatto. Una ricerca leggera, ironica, fresca, proposta da un artista classe 1926 è impagabile. Per il resto non voglio esprimermi, e penso di non essere nemmeno in grado di dare una risposta, risulterebbe inoltre troppo seria… Vorrei invece controbattere rispetto al ruolo di internet; perché leggere questa nuova fase come un appiattimento per l’arte? Non andrebbe vista piuttosto come risorsa? Sono inoltre indisposto a pensare che il futuro debba essere per forza incerto perché penso che sia nel presente, nell’ora, che si debba agire. Dunque cerchiamo di proporre, sperimentare, fallendo, soprattutto fallendo, perché il fallimento, forse tanto quanto l’informe, ha un suo valore indescrivibile, quello di opporsi alla logica produttivista per facilitare una ricerca libera.
Per l’occasione abbiamo fatto un paio di domande anche ad uno degli artisti esposti alla mostra, Ibrahim Nasrallah, meglio conosciuto come La Moustache d’Ibrahim.
Ibrahim, in che modo hai declinato gli spunti di riflessione proposti dall’ esposizione?
Sono partito dalla considerazione che la società moderna è legata alla sua immagine in modo ben diverso da quanto accadeva negli scorsi secoli: i nostri avatar riempiono (nel bene o nel male) la rete. Questi avatar sono diventati un’estensione della nostra propria identità. La fama virtuale è ormai un fatto, una realtà alla quale siamo sottomessi tutti i giorni.
Per non sfociare in questioni di ordine filosofico su cos’è l’umano e come si definisce, ho deciso di usare quello che ci rende conoscibili (cioè il nostro volto) e di nasconderlo. Chi saremo senza il viso? chi siamo senza quell’identità ben nota che ci permette di attraversare la società e di legarci ad altri o di essere rifiutati? Il viso non è una semplice forma fisionomica, ma un portale, una soglia, un potenziale. Nelle mie opere, partendo dalle fotografie in bianco e nero, sia quando si tratta di persone famose o pubblicità o sconosciuti, mi piace rimettere l’essere umano nel suo habitat naturale, senza ritrarne però il volto. Proprio per dimostrare che il nostro “io”, seppur caratterizzato soprattutto da quest’ultimo, è anche e maggiormente un insieme di fattori, di gesti, di linguaggio del corpo che ci rendono ciò che siamo e ci differenziamo l’uno dall’altro “a priori” da quest’ultimo, è anche un insieme di fattori, di gesti, di “body language” che rendono tale o tal’altra persona presente.
Ci spieghi qualcosa in più della tua poetica e delle tue opere in mostra?
Disegno e faccio collage da quasi un anno, questo percorso mi ha permesso di definire man mano la mia linea (che cambia spesso, giustamente), ritengo interessante la scoperta dei materiali, dai vecchi libri che uso nei collage, all’acquarello e l’effetto di trasparenza che cerco spesso di produrre. Lascio parlare il materiale aggiungendo un qualcosa di mio. Apprezzo molto la geometria, la simmetria e la biologia che mettono in confronto il lato razionale e il lato poetico. La ricerca grafica non finirà mai, è un processo bello e lungo. Per quanto riguarda la mostra, la difficoltà principale, oltre al reperimento dei materiali che utilizzo per i collage, è stata far uscire un’idea da questi ultimi. Non volevo ripetermi all’infinito e allo stesso tempo il tema e la linea che ho scelto per dimostrarlo non sono propriamente inediti. Ho fatto tante prove, è stata una scoperta per me, una certa disciplina che ho dovuto mettere alla prova per finire in tempo e per produrre delle opere interessanti, convincenti ma che sopratutto riflettessero la mia visione del tema. Cioè, l’amorfo e l’identità.
ni Haut ni Bas
Chiara Bettazzi, Marie Cousin, Lek M. Gjeloshi, Rachel Morellet, Ibrahim Nasrallah e Bärbel Reinhardt
Inaugurazione giovedì 18 settembre 2014 | ore 19 |
A cura di Alessandro Gallicchio
LATO | piazza San Marco 13 Prato
MOO | via San Giorgio 9/A Prato
Giovedì 2 ottobre 2014, ore 19:00 | LATO
Conferenza / Dott.ssa Caterina Toschi
Strumenti: Quand les images prennent position
In collaborazione con la rivista online d’arte contemporanea e critica Senzacornice.