“I maggiori progressi della civiltà sono i processi che distruggono le civiltà nelle quali si verificano”.
(A. N. Whitehead)
Non esitava Jean Luc Godard a relegare il Cinemascope a formato utile solo alla ripresa di “Serpenti e funerali” (1963), affrancando emotività e volti in una sulfurea propensione per formati e proporzioni tendenti all’equilibrio, a rapporti stabili e statici come le equidistanze del quadrato.
Il formato grandangolare, esasperato dal cinema hollywoodiano quale forza di attrazione, appariva incompatibile con una ricerca espressiva a focale lunga, nella quale il personaggio finiva quasi per aggetto a “toccare” lo spettatore. Sarà però il formato rettangolare a prevalere nel cinema, da un lato per ragioni tecniche, e dall’altro, forse, per ragioni “dinamiche”. Perché di dinamica e statica si tratta, quando la settima arte, attraverso un mezzo intrinsecamente cinetico, (si pensi allo scorrimento lineare nello spazio e nel tempo della pellicola durante la ripresa e la proiezione in analogico), si ferma per evocare e ricercare un’istantanea che ancora si “imprima”, ma senza imporsi quale pretesa di autorialità in cerca di contemplazione.
Marcantonio Lunardi, toscano, classe 1968, è presente in questi giorni all’InVideo di Milano, dal 29 ottobre al 9 novembre con “370 New World”, un corto che si inscrive pienamente nella video arte, rinforzandola attraverso una consapevolezza dei fondamenti originari del mezzo cinematografico, lasciando che senza artificio, una manualità ed una fisicità sottese pervadano l’immagine, epurandola da virtuosismi di tecnica applicata alla macchina da presa.
Le solitudini 2.0, indifferenze che dai “cocci aguzzi di bottiglia” scalfiscono la matericità dei nativi digitali, si irradiano dal centro di un’inquadratura che si costituisce enunciazione pienamente costellata di segni plastici, di figure reali, fisiche, ma che si lascia osservare, svelare dall’occhio che entra nelle case, nei luoghi che non sono più o che sono altro, non luoghi, distopie, assenze, mancanze. Vuoti d’animo di distanze emotive risonanti di richiami ad un immaginario artistico–culturale che ancora si dichiara cornice, quadro interpretativo capace di dare valore all’immagine, nonché di emozionare. Ossimori come il rimando ad una Pietà michelangiolesco–bergmaniana, nella quale il contatto umano è negato, potenti come li avrebbe concepiti Artaud nel suo teatro, volto a sollecitare lo spettatore, o colui che oggi altro non è che un corpo con un’estensione mediatica, che sembra aver anestetizzato, anziché affinato le proprie capacità relazionali, cognitive e affettive.
Cogliendo il potenziale del medium nella strutturazione dell’individuo e della società, McLuhan (1964) aveva sottolineato l’aspetto sensoriale, fisico dell’approccio mediatico al reale, che pare essersi deviato verso un’omologazione irreversibile di matrice huxleyana.
Monotone sono infatti le infinite finestre di una periferia che, nel movimento di macchina non scevro da una fotografia che fa sapiente uso del grandangolo, fanno perdere i punti di riferimento, straniando, in una superficie di identità mentre si ripetono uguali a se stesse, fino a quella frontalità, statica per un attimo, per poi ricomparire come istanza trasmutante, fluida, nell’ascesa di uno sguardo nato da, e poi focalizzato su, un uomo che semina sul cemento.
La centralità, occhio consapevole e cuore rivelatore (perché poi dal rivelarsi ha avuto origine la fotografia stessa nei suoi processi fotochimici e la cinematografia ne condivide i fondamenti), è propria di un autore invisibile e onnipresente al tempo stesso, in una frontalità sospesa tra la staticità, la stabilità di un centro e il dinamismo della macchina da presa, tra obiettività e punto di vista. Lunardi fa vivere in una riscritta cinematica, lo scarto, forse quei 10 gradi del titolo, che lo separano da un cerchio chiuso, da una fissità dalla quale è possibile ancora evolvere, perché in fondo non è il medium a cancellare le società che lo hanno creato, ma l’uso che se ne fa, e il ruolo del regista o dell’artista (a seconda di come si voglia categorizzare un demiurgo del video) torna ad essere quello di un “vate”, ribadendo implicitamente la necessità di un’educazione all’immagine e all’uso dei media nelle generazioni 2.0.