Da secoli Occidente cristiano e Oriente islamico, nonostante la prossimità geografica, vivono nella quasi totale incapacità di dialogo. I rapporti tra le due culture sono sostanzialmente regolati da guerre e interessi economici. Le rappresentazioni occidentali del grande Altro oscillano dall’idealizzazione di un luogo affascinante e misterioso, alla sua stigmatizzazione come posto arretrato e violento. In entrambi i casi si è finiti spesso col creare dannosi stereotipi e catastrofici fraintendimenti.
Too early, too late, Middle East and Modernity, in mostra presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna fino al 12 aprile, accoglie il visitatore proprio con uno dei più celebri e clamorosi fraintendimenti di questo tormentato rapporto. La riproduzione gigantografica della prima pagina di una edizione del Corriere della Sera del ’79 su cui compare un editoriale di Michael Foucault sulla rivoluzione islamica in Iran è posta all’ingresso della mostra. Uno dei più importanti intellettuali europei del ‘900 aveva completamente travisato il significato reale della rivoluzione dell’ayatollah Khomeini, manifestando entusiasmo per quello che si sarebbe rivelato essere un regime teocratico e dispotico.
Negli ultimi decenni la profonda e problematica divisione creatasi nei secoli tra la modernità occidentale e il tradizionalismo mediorientale si è sclerotizzata.
“Con il collasso dell’Unione Sovietica – scrive il curatore della mostra Marco Scotini – il bipolarismo della Guerra Fredda sembra sia stato sostituito da una nuova dicotomia, quella tra Islam e Occidente, così come il vuoto lasciato dall’alternativa al capitalismo sembra sia stato colmato da identità nazionalistiche, etniche e religiose. Alla vecchia opposizione “politica” sarebbe subentrato piuttosto un “conflitto di civiltà”, a diversi regimi temporali, tra forme culturali arcaiche e avanzate, con l’idea di modernità (al-hadatha) quale discrimine”.
Con l’esposizione delle opere di sessanta artisti provenienti da paesi arabi e mediorientali, il curatore ha messo in mostra una realtà complessa e articolata, proponendo un percorso ricco e sfaccettato attraverso la vivace scena artistica contemporanea dei paesi affacciati sull’altra sponda del Mediterraneo. Di questi luoghi purtroppo sentiamo parlare quasi esclusivamente nelle cronache delle guerre e delle violenze che dilaniano quei territori. È tuttavia ingiusto e riduttivo appiattire culture millenarie su quelle immagini che nella maggior parte dei casi ci giungono attraverso uno schermo televisivo.
Le distese desertiche di rocce e sabbia, per secoli luogo di scambio e di passaggio tra mondi differenti, ormai richiamano immediatamente alla mente i video inquietanti con cui i fondamentalisti islamici terrorizzano l’Occidente. Kutlug Ataman se ne riappropria e ne fa lo scenario delle oniriche Mesopotamian dramaturgies.
Nonostante le distanze culturali la tecnologia occidentale è comunque penetrata nelle trame delle società mediorientali, creando una fortissima tensione dialettica tra modernità e conservazione. In questa tensione la tecnologia assume così forme e caratteri specifici. Si pensi al largo utilizzo delle nuove tecnologie da parte di chi combatte per la jihad, al ruolo giocato da smartphone e social network nelle primavere arabe, o al grado di sviluppo tecnico raggiunto da Emirati e Arabia Saudita.
Il titolo della mostra (Too early, too late. Middle East and Modernity) preso in prestito da Trop tôt/trop tard di Straub e Huillet, il film che ricostruisce parallelamente le lotte contadine della Francia del 1789 e quelle dell’Egitto del 1953. L’intenzione è quella di creare una connessione inedita su uno degli aspetti più importanti della modernità: non il progresso tecnico-scientifico, ma le lotte di rivendicazione dei diritti delle classi subalterne. È proprio su questi inaspettati punti di contatto che è costruita la mostra. Non è un caso che l’esposizione sia stata pensata proprio per Bologna, una delle cinque città dell’Europa cristiana che nel 1312 era stata designata per ospitare le cattedre di arabo, ebraico e siriaco.
Anche nelle immagini della malattia e del dolore, nonostante le visioni completamente differenti, si riscopre un ulteriore punto di contatto: in Repair, Culture’s agency #7, Kader Attia affianca i volti “spezzati” dei sopravvissuti della Grande guerra alle maschere rituali africane. I prodigi della moderna tecnica occidentale hanno sfigurato il volto di una moltitudine di uomini, incidendo sulla carne viva quelle smorfie e quei tratti caricati che nelle arcaiche maschere rituali sono incise solo sul legno.