Con la fine dell’estate e il clima che diventa sempre più freddo, è facile guardare con nostalgia ai giorni estivi caldi e soleggiati. La malinconia che ci pervade è perfettamente rappresentata nella serie Sleeping Town della giovane fotografa Lara Bacchiega.
Spiagge desolate, piscine abbandonate e svuotate, sedie sdraio impilate, colori tenui e un cielo grigio che ricorda quanto lontana sia la prossima estate.
Protagonista dei suoi scatti è la piccola, ma nota, area turistica di Bibione, in Veneto, della quale Lara ha voluto evidenziare la sua funzione di nonluogo, in quanto mero luogo di fruizione e passaggio solo durante la stagione estiva.
Per conoscere meglio Lara e il suo progetto, le abbiamo fatto qualche domanda.
Ciao Lara, potresti raccontarci un po’ di te e dei tuoi studi?
Finora mi sono sempre presentata così: Sono Lara, vivo in un bunker, sono mancina e fotografo piscine vuote. Ora non vivo più in un bunker ma in un appartamento al quarto piano a Venezia, il resto non è cambiato. L’anno scorso in questa città mi sono laureata allo IUAV in Arti Visive e dello Spettacolo.
Come ti sei avvicinata alla fotografia e cosa significa per te?
Mi sono avvicinata alla fotografia, come all’arte in generale, per quell’esigenza irrompente – che in molti sentono – di esprimere se stessi. Quando frequentavo il liceo scientifico, ho sentito forte questo impulso di espressione, di esternazione, di realizzazione e concretizzazione di ciò che sentivo o pensavo o di come vedevo, e ho quindi sperimentato diverse attività per farlo, dalla musica alla scrittura, ma non ero soddisfatta dei risultati. Con la fotografia credo – e spero – di aver trovato finalmente il mezzo, ma soprattutto il linguaggio, che più mi appartiene.
Ora che mi sono avvicinata alla fotografia di ricerca sul paesaggio e ho conosciuto il lavoro dei grandi maestri, vedo sempre di più la fotografia come uno strumento per conoscere il mondo e riflettere su di esso. Non tanto o non solo, quindi, un processo di tipo conoscitivo, che offre delle risposte, ma innanzitutto un modo per porsi domande, per interrogarsi.
Ciò può sembrare contraddittorio perché da un lato sono sempre stata una persona autocentrata, interessata più a cosa succede “dentro” e poco invece a quello che succede fuori, dall’altro, sono curiosa e mi relaziono con il mondo tramite la fotografia. Forse i due aspetti in realtà si mischiano, nel senso che cerco di rendere tangibile e visibile quell’invisibile che è nella mia mente, fatto di immagini, ricordi, vita, sogni, citazioni culturali, e di tramutarlo quindi in un oggetto concreto, un’immagine. Anche nell’affrontare una tematica riguardante qualcosa di reale, quindi, non faccio altro che ricercare corrispondenze con quello che è il mio immaginario. Forse, come diceva Ghirri, la fotografia è “uno strano e misterioso equilibrio tra il nostro interno e il mondo esterno”. Ancora, è un pensare per immagini”.
Come mai la scelta della fotografia analogica?
Cambia il metodo e l’approccio. L’analogico favorisce la lentezza, la riflessione, la consapevolezza delle scelte effettuate. Si è per forza limitati dal numero di scatti del rullino, un grande svantaggio pratico ma un vantaggio dal punto di vista linguistico e formale.
Ho provato l’analogico per gioco, ma da quel momento il mio modo di pensare la fotografia è cambiato radicalmente. Mi sono convertita alla fotografia lenta abbandonando la poetica dell’instante decisivo. Con il digitale non riesco a ottenere gli stessi risultati e tendo ad avere lo scarto facile, ma a volte mi piacerebbe utilizzarlo per comodità.
Esiste un filo conduttore che collega tutti i tuoi progetti?
Ciò che mi interessa maggiormente, e che quindi può costituire il mio filo conduttore, è l’interesse per i segni del cambiamento del territorio e il rapporto che si instaura fra l’uomo e il luogo, soprattutto riguardo a ciò che può apparire banale, in quanto talmente ordinario da non sembrare degno di nota. Ma proprio questi luoghi riescono a ritrarre compiutamente il mondo contemporaneo, con le sue innumerevoli contraddizioni e nella sua complessità.
La fotografia diventa quindi un attento esercizio visivo, che si propone una lentezza dello sguardo e dedica nuovamente attenzione a ciò che è quotidiano, quindi che si è disimparato a riconoscere, per poterlo vedere sotto una nuova luce, un po’ come il fanciullino pascoliano che con stupore vede tutto per la prima volta.
Mi piace la fotografia silenziosa, che parla dell’uomo senza citarlo direttamente.
Come mai la scelta di ritrarre luoghi abbandonati?
Non sono propriamente abbandonati ma sono sospesi, in letargo, di passaggio, usati ciclicamente solo nella stagione estiva. Frequentando Bibione, mi sono accorta che l’abbandono non è mai brusco e non lascia i luoghi al libero e disordinato sfacelo del tempo, ma, al contrario, c’è una cura a sistemare e preparare la città, ad affrontare l’inverno e le intemperie. Vengono ad esempio montate delle tavole di legno fra la passeggiata del lungomare e la spiaggia, in modo che non trasbordi troppa sabbia; cartelli stradali, condizionatori, lampioni, insegne, perfino i grandi coni gelato delle gelaterie vengono imballati per evitare deterioramenti. È nell’interesse della città e dei vari esercizi prepararsi a questo letargo in modo da evitare o limitare eventuali danni e facilitare il ripristino all’apertura della nuova stagione. In questo, Bibione corrisponde perfettamente alla definizione di nonluogo perché creata appositamente per svolgere una funzione, essere meta turistica e quindi totalmente dipendente dal flusso delle masse. In generale a ciò che è abbandonato penso di preferire luoghi ancora ‘vivi‘ che raccontino del presente e dell’uomo che li abita, con curiosità quindi anche antropologica.
Perché ritrarre un nonluogo proprio nel momento in cui perde le sua funzione di luogo di passaggio ed entra nella sua fase di “letargo”?
In un certo senso è sempre un luogo di passaggio in quanto oggetto di una pratica di migrazione temporanea ciclica. Ritraendo questi luoghi quando si conclude la stagione turistica, nella loro fase di inutilità spettrale, per negazione, si enfatizza questa funzione di passaggio, intesa quindi in modo esteso a tutta la stagione, alla frequentazione periodica.
La ricerca di toni tenui e luci soffuse nei tuoi scatti vuole esprimere uno stato d’animo o ha solamente la funzione di enfatizzare il silenzio e l’abbandono di quei luoghi?
Non penso sia solo una preferenza estetica. Mi sembra invece che i toni pastello trovino relazione con il mio immaginario e i riferimenti culturali come film, fotografie, libri, con i sogni, il vissuto, mille cose – il discorso che facevo prima sulle corrispondenze. Non opero, però, modifiche quindi il risultato è una combinazione fra la scelta dei soggetti, l’attenzione alla luce e la pellicola.
Stai lavorando ad atri progetti? Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Ora che vivo stabilmente a Venezia mi piacerebbe concentrarmi sulla complessità di questa città dall’immagine ormai inflazionata. Ad esempio, sto lavorando a una ricerca per Lacuna/ae, progetto collettivo, curato dalla fotografa Eleonora Milner, che intende indagare il paesaggio contemporaneo e le modalità abitative della laguna di Venezia.
Sto poi cercando di trasformare Sleeping Towns in un libro fotografico: ho sempre pensato al libro come buona destinazione per le mie foto e quindi sono stata super contenta quando una piccola casa editrice di Stoccolma mi ha contattato con questa idea.
Per il resto, il futuro è incerto! Coniugare la propria passione con il lavoro è un’impresa, soprattutto con questo tipo di fotografia.