Tra le azioni più rivoluzionarie del XX secolo, vi è senza dubbio la crasi performativa che ebbe luogo nell’agosto del 1952 al Black Mountain College, in North Carolina. In un’esibizione combinata, alcuni tra i più significativi artisti del secondo dopoguerra, riportarono l’attenzione dell’arte sul problema dello statuto dell’opera e sulle motivazioni della sua genesi, in funzione di una sua radicale riconsiderazione.
Qualche anno più tardi, con la definizione di happening, Allan Kaprow avrebbe dato un nome a ciò che, in quel fatidico anno, si pose come uno dei primi risultati di un fermento creativo che aveva coinvolto la cultura artistica americana sin dal primo dopoguerra.
Con la fondazione del Black Mountain College nel 1933, John Andrew Rice e Theodor Dreiser cercarono di mantenere in vita, negli Stati Uniti, ciò che i totalitarismi stavano sistematicamente distruggendo in Europa, con l’esemplare chiusura del Bauhaus a Berlino durante lo stesso anno.
Il college, caratterizzato da un sistema didattico basato sul metodo dell’educazione progressiva e dell’attivismo pedagogico di John Dewey, vide il passaggio di una larga parte di intellettuali dell’avanguardia contemporanea; tra essi John Cage, che al Black Mountain ideò la sua composizione più celebre – dal titolo 4.33’’ – il danzatore Merce Cunningham, tra i fautori della modern dance e Robert Rauschenberg. Questa rinnovata impronta sperimentale e interdisciplinare, fece della scuola uno dei centri propulsori di un nuovo sistema di produzione artistica, all’interno del quale, agli steccati disciplinari andavano sostituendosi la forza prorompente dell’idea e del gesto artistico, intese come pura sostanza formale, autonome rispetto alla costrizione narrativa e rispondenti unicamente alla propria natura linguistica.
Nascendo da tali presupposti, non è un caso che la storia dell’arte ricordi il primo decennio dopo la guerra con il nome di Neo Dada, come un flusso di ritorno in cui, alla progressiva trasformazione della società in un sistema massificato – multiplo e cangiante, legato all’oggetto e alla sua valenza merceologica – l’arte rispose non più con la rappresentazione ma con la presentazione della realtà stessa e di tutto ciò che poteva essere concepito come elemento denotativo di essa.
Gli oggetti d’uso comune, trasmigrati dalla rivoluzione duchampiana degli inizi del Novecento nelle sculture di Louise Nevelson, divengono nelle opere di Rauschenberg – più incisivamente nei Combine Paintings degli anni Cinquanta – una ironica drammatizzazione del quotidiano, un paradosso visivo che, superando il ready made, sperimenta non solo una rifunzionalizzazione in senso concettuale (Duchamp) ma punta ad una riqualificazione formale dell’oggetto, quasi materica, in uno scenario di combinazioni multiple in cui pittura e scultura si uniscono senza soluzione di continuità. Le tele monocrome e i successivi assemblaggi, non trasfigurano né trascendono la realtà ma di fatto l’accolgono, divenendo tracce del passaggio della vita nel suo fluire imprevisto e casuale, scevro da gerarchizzazioni e categorie precostituite. Se la bellezza è nel caso, allora è nella vita e l’arte non deve far altro che permettere il dispiegarsi delle sue possibilità.
La cifra immanentistica della produzione di Robert Rauschenberg troverà posto nelle ricerche artistiche di John Cage e del danzatore Merce Cunningham, a lavoro insieme sin dal 1937, anno in cui si incontrano alla Cornish School di Seattle.
Sin dalla metà degli anni Quaranta, Cage cercava di ridefinire il ruolo dell’atto creativo attraverso un vero e proprio processo di liberazione, tentando di eludere gli ostacoli imposti dalla simbologia, dal legame tra forma e contenuto, dalla necessità della narrazione.
La musica, come l’arte, materializza l’indeterminatezza della vita, la sua dirompente casualità, accoglie ogni elemento, non fa distinzioni di sorta, abbraccia il caos dell’universo.
Cage incluse nelle sue composizioni il dato casuale e l’imprevedibilità dell’esperienza, ispirandosi agli studi embrionali sul suono condotti dai futuristi e al cosiddetto Intonarumori di Luigi Russolo, “lasciando che il suono fosse sé stesso, anziché farne un veicolo per le teorie dell’uomo o le espressioni dei sentimenti umani” (Cage).
A ciò si lega il chance method e l’utilizzo dell’I Ching, adottato per la prima volta nel 1950, per la determinazione casuale, secondo sistemi combinatori, delle strutture ritmiche alla base delle sue composizioni.
Influenzato dall’estetica di Cage, anche Merce Cunningham lavorava su una rivoluzione dei parametri della danza, definendo il ritmo a partire dal movimento inteso come attitudine naturale del corpo e, ancora più radicalmente, dal movimento peculiare di ogni singolo danzatore.
Dalla stasi alla massima tensione, ecco le coreografie di Cunningham prendere vita dall’osservazione dell’azione e dallo studio rigoroso della sua ripetizione.
Non vi è, nelle sue performances (che prenderanno successivamente il nome di Events), racconto o stato d’animo ma pura attività, che si dispiega nello spazio e nel tempo.
L’assemblaggio delle sezioni di danza avveniva, anch’esso, attraverso il metodo dell’I Ching, per cui lanciando delle monete Cunningham ne stabiliva, poco prima della scena, l’ordine di successione. Ai compositori delle partiture per i suoi spettacoli – oltre a John Cage, anche David Tudor e Gordon Mumma – veniva comunicato generalmente solo il tempo di durata complessiva della coreografia, lasciando che il componimento potesse strutturarsi autonomamente.
Alla purificazione del movimento, scevro da ogni intenzionalità espressiva, si legava dunque la purificazione della danza intesa come indipendente, come fenomeno coesistente con la musica ma concepita senza vincoli di referenzialità con essa.
L’arte è dunque ciò che accade in una frazione spazio-temporale, che non necessita di essere guidata o manipolata dal suo artefice e in cui la cifra espressiva o simbolica non è data a priori ma affidata esclusivamente alle capacità percettive dello spettatore.
Alla ormai consolidata collaborazione di Cage e Cunningham, i quali condividevano il metodo by chance promuovendo l’integrazione indipendente dei linguaggi, si univa l’apporto della produzione di Rauschenberg (i cui monocromi ispirarono la composizione di 4,33’’ di John Cage) che collaborò alla realizzazione delle scenografie di molti spettacoli della compagnia di Cunningham dal ’54 al ’64. Un lavoro di coesistenza e di reciprocità delle arti che si manifesta significativamente nell’agosto del 1952, quando il refettorio del Black Mountain College ospitò un evento ideato da Cage, in cui la combinazione simultanea di musica, danza e arte diede luogo a Theatre Pièce #1. Tutto “accadde”, stratificandosi a vari livelli di lettura, all’interno di un flusso attivo, in cui l’unico vincolo era costituito da un inizio e una fine in senso temporale, un tempo scandito da Cage in time brackets.
L’obiettivo doveva essere quello di sovvertire le categorie tradizionali attraverso le quali l’arte veniva canalizzata, adottando un approccio democratico e multidirezionale, in cui non solo andava scomparendo la relazione gerarchica tra le arti ma lo stesso punto di vista del pubblico, tradizionalmente subordinato ad un tipo di fruizione monodirezionale, imposta a livello formale quanto di contenuto, avrebbe subito una radicale modificazione; la sala rettangolare fu divisa tracciando delle diagonali e i posti per gli spettatori ricavati all’interno dei triangoli definiti dalle rette.
La visione e l’ascolto trasversale divennero pertanto qualcosa di concreto e non un’evocazione meramente metaforica. Su una scala a pioli John Cage leggeva il testo di una conferenza sul maestro Johannes Eckart, fondatore della scuola mistica tedesca vissuto tra il XIII e il XIV secolo, mentre Merce Cunningham improvvisava passi di danza, muovendosi tra le diagonali della sala; sulle pareti maggiori venivano proiettate diapositive di film e fotografie, la cui visione si alternava ai White Paintings di Robert Rauschenberg, appesi alle pareti sopra il pubblico.
Ai silenzi di John Cage, Charles Olson e Caroline Richards leggevano bravi tratti dai loro componimenti mentre la musica, suonata al pianoforte da David Tudor, riempiva l’ambiente. Appare chiaro qui il riferimento di Cage al teatro, inteso come dimensione più adatta a dar luogo ad una casuale pluralità di accadimenti, che altro non sono se non la vita stessa.
Ciò che ebbe luogo nel 1952 può dirsi la somma antitesi di quella che Richard Wagner definì velleitariamente opera d’arte totale, intesa come fusione finalizzata alla sintesi dell’espressione artistica in senso universale, voce dello spirito collettivo di un popolo. A questo proposito, in Notes on the opera del 1930, Bertolt Brecht (come Roger Copeland ci fa notare in un saggio dedicato a Merce Cunningham) parla al contrario della necessità di una “dis-unità” intenzionale, laddove la guarigione dalla paralisi cognitiva si sarebbe potuta ottenere proprio applicando questa disgiunzione dei canali espressivi – intesa come antidoto all’ebrezza estatica inflitta alle masse dalle tragiche opere wagneriane – come Cage e Cunningham avrebbero più tardi dimostrato, portando i linguaggi ad una purificazione sul piano eminentemente emotivo e scongiurando la loro inebriante quanto pericolosa fusione.
All’autonomia che nasce dalla disgiunzione, segue la distanza che permette di distinguere i confini degli elementi, garantendo una libertà di fruizione di cui possiamo godere solo grazie alla nitidezza della visione, per approdare infine ad una coscienza cognitiva oltre che critica.
Il traballante equilibrio, a cui la seconda guerra mondiale aveva costretto l’umanità, aveva generato la reazione irrazionalistica e primitiva di tanto Espressionismo astratto, la cui carica emotiva si era riproposta di esorcizzare il male della società, in una volontà di regressione espressiva, di tragica non accettazione del reale. A questa visione andò quasi opponendosi quella di sperimentatori come John Cage, Merce Cunningham e nondimeno Robert Rauschenberg o Jasper Johns i quali, fronteggiando il proprio tempo, lo schernirono con le sue stesse armi, dando voce al rumore, immagine all’ordinario, rendendosi essi stessi mediatori super partes della natura del reale, della quale permisero ogni possibile declinazione, desistendo dall’impulso all’intercessione soggettiva e demandando alla vita il fardello della scelta, di cui restarono rigorosi registratori umani.