Ivo Saglietti , uno dei più grandi autori italiani di fotoreportage che ha vinto tre volte il premio World Press Photo, espone sino a fine gennaio al Musée de la Porte Dorée di Parigi, museo nazionale della storia dell’immigrazione, le sue fotografie del Monastero di Mar Musa dopo l’esposizione presso il Museo della Fotografia di Salonicco.
“Quindici anni dopo e a quattro anni dal sequestro di Padre Paolo Dall’Oglio, sono tornato a Mar Musa” dice Saglietti, da anni impegnato in progetti legati a documentare le conseguenze di guerre che vedono uomini ridotti allo sfruttamento, alla povertà segnata dalle malattie, all’oppressione. In questo suo ultimo viaggio ripercorre la storia avvincente e attuale di quel monastero che sorge a circa 80 chilometri a nord di Damasco, in Siria.
Parliamo con Ivo di questo ultimo e interessante progetto ricordando la sua bella definizione di cosa cerca in una fotografia:
L’Uomo e il suo destino. E la complessità del momento, che poi non sempre si trova
Non è la prima volta che ti rechi al monastero di Mar Musa, luogo ricco di storia, di fede e di dialogo che si erge nel deserto nei pressi della cittadina di al-Nabk. Sei stato lassù, a 1300 metri sul livello del mare, già prima della terribile guerra che si è abbattuta sulla Siria?
Sono andato già quattro volte in quei luoghi. Il primo viaggio nel 2002, sono ritornato nel 2004 e in quell’anno ho pubblicato il libro Sotto la tenda di Abramo. Deir Mar Musa el-Habasci in occasione della mostra delle mie fotografie alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Ivo Saglietti con Padre Paolo Dall’Oglio
Hai conosciuto il gesuita Padre Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità e chiamato l’italiano del deserto. È stato rapito quattro anni fa e di lui non si sa più nulla. Come ricordi quel vostro incontro?
L’ho conosciuto nel 2002 ed era nata una splendida e profonda amicizia fatta di momenti molto importanti e anche di grande intimità. Abbiamo parlato sempre tanto con Paolo, conosco la sua storia ma… sarebbe molto lungo raccontarla. Lui era in Siria per perfezionare il suo arabo, perché aveva studiato lingue orientali, e per un ritiro spirituale. Un giorno degli amici, era l’estate del 1982, l’avevano portato a vedere i ruderi del monastero e lui se ne innamorò immediatamente. Provò una grande commozione e grandi emozioni. Da quel momento decise che quella sarebbe diventata la sua casa, la casa sua e del dialogo interreligioso. Ci sono voluti tanti anni ma, lentamente, è stato tutto ricostruito e rimane uno dei più bei posti nel deserto della Siria. Padre Paolo Dall’Oglio, per la ristrutturazione, ha dato lavoro a tante persone del luogo, in quella zona c’è anche una comunità cristiana, e grazie anche all’aiuto di molti suoi amici italiani e con altri vari contributi, il monastero ha continuato la sua espansione: sono stati costruiti altri spazi, uno per le monache, uno per gli ospiti. Interessante, e che io non avevo ancora visto, è la costruzione di una bellissima scuola di musica, realizzata dai cristiani, a Nebek. Il monastero è diventato un luogo estremamente importate.
Hai deciso di ritornare quest’anno al monastero. Raccontaci del tuo viaggio e di quei 345 scalini da salire… Quali e quanti cambiamenti hai trovato?
Il viaggio è stato abbastanza complicato perché non è facile entrare in Siria. Solo per avere i visti ci sono voluti un paio di mesi, permessi vari, dal Ministero dell’Interno… occorrono tante pratiche per entrare in un paese in guerra. Dopodiché siamo partiti io e Tilman Wörtz, scrittore e giornalista dell’agenzia Zeitenspiegel . La zona è pacificata, in questo momento, e devo dire che non ho visto grandi rovine di guerra. L’emozione di ritornare è stata grande… rifare quei 345 scalini per salire sino al monastero… per fortuna ora c’è una carrucola che ha portato su i bagagli! Ho fatto la salita lentamente, ma non solo una volta, perché sono salito e sceso per ben tre o quattro volte durante quei giorni. L’arrivo non è stato particolarmente traumatico, nel senso che mi sembrava di averlo lasciato una settimana prima. Quello che mi è dispiaciuto molto è non essere entrato in certe stanze dove con Padre Paolo avevo avuto dei bellissimi incontri. Lì ho ritrovato i monaci e, a parte Padre Jihad, c’erano tutti. C’era Sorella Huda e sorella Dima, c’era Boutrus e anche un personaggio strano che non avevo mai conosciuto, non era un monaco, ma un uomo che aveva avuto una vita piuttosto frenetica, tra alcol e altre cose ma, arrivato al monastero, ha trovato il luogo dove fermarsi, dove vivere con più moderazione.
È sempre un luogo dove si cerca il dialogo tra cristianesimo e islam anche in questi anni tormentati da sciagurate guerre?
Rimane un luogo di dialogo interreligioso. In alcune giornate passate a Nebek abbiamo visto quanto Padre Jihad sia stimato ed amato anche dai musulmani, dagli islamici. Quindi direi che questa idea del dialogo continua.
Il monastero accoglie ospiti da tutto il mondo che arrivano lassù per i più svariati motivi: meditare, pregare, per lavorare la terra o per pura curiosità. Da chi è composta la piccola comunità monastica e come sono regolate le giornate di chi gestisce la vita e la storia del monastero di Mar Musa?
In questo periodo non arrivano tanti ospiti, la situazione rimane comunque complicata. Mi diceva Huda, che è la persona che più di altri vive nel monastero, che a volte hanno avuto giornate con grandi gruppi di visitatori, anche di 30 o 40 persone, soprattutto musulmani. La vita è regolata dalle messe, che sono una al mattino e una alla sera, poi ci sono i momenti di meditazione e di preghiera. Io non pregavo, ma partecipavo. Ora ci sono più difficoltà per i visitatori, per via della guerra.
Il tuo rapporto di fotografo in mezzo a questa comunità?
Io come fotografo sono sempre stato accettato ed amato. Non sarebbe stato possibile fare il lavoro che ho fatto. Sia le prime volte, quando ho realizzato anche il libro Sotto la tenda di Abramo, sia in questo ultimo viaggio. Anche dalle immagini si vede la grande disponibilità che hanno avuto tutti a porsi davanti all’obiettivo della mia macchina fotografica.
Quello che è cambiato è che il lavoro iniziale era stato tutto in bianco e nero mentre questo reportage, realizzato per il magazine tedesco Mut, è a colori. Ma, nella pubblicazione, hanno inserito anche immagini in bianco e nero. Io avrei continuato a fotografare in bianco e nero…
Ai tuoi progetti fotografici dedichi spesso anni di lavoro e centinaia di immagini. Come è iniziato il tuo amore per la fotografia che ti ha portato sovente a contatto con situazioni pericolose come in Africa Centrale, in Medio Oriente, nei Balcani, in America Latina, ad Haiti?
Il mio amore per la fotografia è nato anni fa… io allora lavoravo nel cinema, ero operatore di macchina, cameraman come si dice adesso! Un mondo che, per come sono io che rimango una persona piuttosto discreta e solitaria, non andava bene. Troppa confusione, troppe persone, a volte anche maleducate e volgari. Poi ci fu un incontro con un libro, un libro del fotografo americano W. Eugene Smith Minamata, un reportage che il reporter realizzò nell’omonima isola del Giappone dove, a causa di scarichi di mercurio nell’acqua, avevano cominciato a nascere bambini deformi e con gravi problemi di salute. In particolare c’era una fotografia in quel libro che mi commosse molto, era la foto di una madre che sollevava la sua bambina deforme dalla vasca da bagno. Era quasi una Pietà. Anzi, era una Pietà. Di fronte a quelle immagini decisi che anche io avrei tentato di fare immagini come quelle. Poi ho sempre avuto un grande amore per i viaggi e anche per la fotografia, ma allora era un amore ancora latente, una passione ancora un po’ nascosta. L’argomento è un po’ complesso. In realtà ho iniziato a rendermi conto che dire che un fotografo si occupa del destino dell’umanità è un po’ arrogante. Ora provo una certa stanchezza per quanto riguarda le situazioni complicate, pericolose e, soprattutto, per l’umanità che soffre. In questo momento sto lavorando ancora al mio progetto sulle Frontiere del Mediterraneo dove finisci sempre per incontrare le miserie del mondo, anche lì. Se penso ai viaggi che ho fatto insieme ai profughi siriani, ma non solo siriani, tra Grecia, Serbia, Croazia… Sto cominciando a valutare anche un altro aspetto dell’essere umano, che è il paesaggio, quello che l’essere umano costruisce e lascia ai posteri. Allora… ecco che, lavorando anche con formati diversi, sto appassionandomi molto a questo aspetto del paesaggio che io chiamo Paesaggio Sociale.
La tua evoluzione nella ricerca di immagini raffinatamente essenziali ma emotivamente, e spesso drammaticamente, sempre coinvolgenti ha portato alla scelta del bianco e nero. Come per Letizia Battaglia, che in un’intervista ha detto “Il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere cose che il colore non rivela”, anche per te il colore può distogliere l’attenzione e quasi banalizzare l’immagine?
Io considero la fotografia, e vedo le fotografie, in bianco e nero. Mi pare che il bianco e nero, parafrasando un famoso fotografo, rappresentino… il bianco il colore della speranza e il nero il colore della disperazione. Questi due colori che si mischiano ci raccontano l’umanità. Anche io la penso così. Per quanto riguarda il digitale penso che la fotografia digitale sia diabolica, una specie di prodotto del diavolo. Io la intendo in questo senso. Non vedo più delle grandi fotografie, ormai. Vedo sempre gli stessi colori, le stesse facce, le stesse espressioni, le stesse inquadrature. Mi sembra che dietro ci sia, appunto, la mano del diavolo! Anche se, a volte, ho la tentazione anche io di fare qualche fotografia a colori ma… la vorrei fare in pellicola e non in digitale. Ultimamente ho realizzato un lavoro in Belgio, fotografie di una centrale nucleare ad Anversa. Ho fotografato sia a colori sia in bianco e e nero e lì mi sono reso conto che il bianco e nero rimane con tutto il suo fascino, con tutto il suo mistero e con tutta la sua disperazione, anche.
Ivo Saglietti, nato a Tolone, vive a Genova da molti anni. Dal 1978 si dedica alla fotografia, dopo aver lavorato in produzioni cinematografiche, lavorando per la prima volta a Parigi per agenzie americane e francesi. Dal 2000 è membro associato dell’agenzia fotogiornalistica tedesca Zeitenspiegen Reportagen, fondata da Uli Reinhardt, per la quale sta lavorando ad un progetto sulle frontiere nel Mediterraneo e Medio Oriente. Collabora con Heillandi Gallery di Lugano, New Old Camera di Milano, Artphotò di Torino. È autore di numerosi libri che illustrano i suoi progetti fotografici e vincitore di prestigiosi premi e riconoscimenti.