Allegra Martin, classe 1980, una formazione da architetto e poi l’incontro con la fotografia di Guido Guidi durante un corso universitario allo IUAV di Venezia. Una produzione fotografica che indaga i rapporti tra spazio e paesaggio, la percezione dei luoghi come racconto del proprio vissuto.
Abbiamo appreso da alcune delle tue interviste rilasciate in passato che Walker Evans è stato tra i personaggi che più ti hanno ispirata. Il tema della fotografia sociale, centrale nel lavoro di Evans, lo ritroviamo interpretato anche in alcune delle tue serie fotografiche. Come ti rapporti rispetto a questo tema?
Senza dubbio Walker Evans è tra i fotografi che maggiormente hanno influenzato la mia formazione e il suo lavoro non smette di ispirarmi e sorprendermi. Non credo che esista una “fotografia sociale”, quanto piuttosto temi di natura sociale che in alcune occasioni si cerca di raccontare e indagare attraverso il mezzo fotografico. Ma questo “compito” non è prerogativa della fotografia, la quale non fornisce risposte né rappresenta di per se stessa una verità univoca. Tornando ad Evans, Luigi Ghirri sosteneva che l’opera del fotografo americano: «è tra le poche del Novecento che lascia agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo, con una riservatezza, una dignità, prima sconosciute».
Guardare quindi al mondo che ci circonda senza alcun giudizio morale – ma con consapevolezza – lasciando che le cose ci si rivelino.
Quanto la tua formazione da architetto ha influito nel tuo modo di fotografare e qual’è il tuo approccio alla fotografia?
I miei studi di Architettura hanno sicuramente influenzato il modo di fotografare (ho iniziato relativamente “tardi” a pensare alla fotografia come una pratica consapevole): da una parte imponendomi rigore e metodo, dall’altra fornendomi strumenti critici. Oggi cerco un equilibrio nel mio lavoro tra il rigore e la ricerca di maggiore libertà espressiva. Considero la fotografia uno strumento di conoscenza, che mi permette di ricostruire la mia visione del mondo così come esso mi appare.
Il rapporto tra persone e luoghi in alcuni dei tuoi lavori è molto forte. I protagonisti ritratti hanno una presenza fortissima nel luogo e quando sono assenti da esso, sembra che stiano per saltare fuori da un angolo della foto da un momento all’altro. Quasi come se il luogo aspettasse la persona. Vuoi parlarci di questo dualismo?
Ritengo che l’oggetto delle mie fotografie sia sempre il paesaggio, inteso come stratificazione culturale e ambientale di un dato territorio; inevitabilmente persone, spazi, oggetti fanno parte di un paesaggio e contribuiscono in egual misura alla sua costruzione. Per me ogni spazio è una sorta di teatro in cui si mette in scena inevitabilmente la vita: mi piace trovarmi lì, osservare, e a volte, scattare una fotografia.
Nella serie “A bordo” analizzi lo spazio dell’attesa sui traghetti. Come ti rapporti rispetto questa tematica?
La serie “A bordo” l’ho iniziata circa dieci anni fa, spinta dall’entusiasmo e dalla curiosità che ho sempre nutrito verso le imbarcazioni in generale. Più che sull’attesa da parte dei passeggeri, il mio interesse si è focalizzato sugli spazi delle navi traghetto e il loro essere sospesi nel tempo e nello spazio; le persone infatti se da un primo momento comparivano nelle fotografie, col tempo sono state escluse dagli scatti.
Quali progetti lavorativi hai per il futuro?
Ho molti progetti da realizzare – non potrei vivere senza! Ad alcuni sto già lavorando (dovrete seguirmi per scoprirli!) e altri mi accompagnano sebbene siano solo delle idee. Sto continuando a fotografare gli interni delle navi, per esempio. E voglio fotografare più architettura.
È in corso la Biennale di Architettura di Venezia. Cosa ne pensi del tema “Freespace” proposto quest’anno? Qual è la tua interpretazione?
Non ho ancora visitato la Biennale quest’anno, quindi posso solo esprimere un pensiero rispetto a quello che ho letto e visto indirettamente; il tema scelto dalle due curatrici mi sembra estremamente interessante: pensare lo spazio come libero, generoso, che unisce e che è capace di accogliere la complessità e la diversità. La Biennale di Architettura deve essere anzitutto un’occasione di incontro e dibattito – e scontro – sui temi progettuali e teorici da parte di addetti ai lavori, critici e pubblico. Mi auguro che sempre di più lo scopo della progettazione oggi sia il prendersi cura dei nostri corpi e dei nostri pensieri, accogliere i bisogni del nostro quotidiano e al tempo stesso di creare nuovi spazi in cui sognare.