L’architettura di Louis Kahn resta ancora oggi immutata, convinto che i buoni edifici avrebbero prodotto meravigliose rovine, il maestro ha progettato architetture atemporali frutto di una coerenza rispetto a una personale visione del mestiere, non ad uno stile, a delle formule, o a un linguaggio.
Jonas Salk commissiona nel 1959, a Kahn, il Salk Insitute; come spesso accade per i grandi capolavori di architettura la sintesi raggiunta tra progettista e committente, non senza contrasti, porta alla genesi di un progetto non incatenato in restrizioni programmatiche, che trascende la destinazione d’uso, per diventare degli uomini.
Il Salk Institute è una sfida particolarmente complessa, che impegna lo studio di Kahn per molti anni e si palesa come sintesi di molti progetti non realizzati, che si concludono nella sua costruzione.
I laboratori sono l’unica parte realizzata di un progetto più vasto che contemplava anche alloggi per il personale, il palazzo dell’amministrazione e le attività comuni. Il complesso si trova all’interno del campus universitario di San Diego, un luogo di straordinaria bellezza affacciato sull’Oceano Pacifico.
L’edificio per i laboratori, l’unico portato a termine, ha un impianto semplice: costituito da due bracci che chiudono un ampio spazio lastricato di travertino, con al centro una linea d’acqua che si perde nell’orizzonte.
Kahn reintepreta il tema dell’edificio, non ibridando studi e laboratori, evitando quindi che lo spazio dell’ufficio sia completamente invaso dagli impianti e dalle tubazioni.
La struttura dell’edificio è realizzata interamente in calcestruzzo gettato in opera; il bianco del cemento viene mescolato, durante l’impasto, con sabbia vulcanica di colore rosso, ottenendo agglomerati cristallini con venature rosate. Le tracce del sistema costruttivo, come i giunti dei pannelli delle casseforme e i distanziatori, divengono dimostrazioni della perfetta griglia modulare dell’edificio.
Sulla corte centrale, tra i volumi dei laboratori, si affacciano le logge e gli studi; questi ultimi compensano la vicinanza con i rumorosi laboratori, posti alle loro spalle, con un quieto e silenzioso affaccio sulla corte. Le logge sono buchi nella struttura, protette soltanto da leggere ringhiere in ferro; negli stessi buchi, a piani alterni, sono ottenuti gli studi, chiusi da pannelli di legno tek.
Finiture di vetro e tek caratterizzano la facciata rivolta verso il Pacifico, che rompe la generale ortogonalità delle pareti in cemento, aprendosi, con una rotazione di quarantacinque gradi, con finestre affacciate sull’Oceano.
Il grande vuoto centrale rivestito in travertino doveva essere inizialmente riempito da un giardino, disegnato dallo stesso Kahn; fu dopo un colloquio con il maestro messicano Luis Barragán, suo buon amico, che Kahn decise di lasciarla vuota. Quando gli fu domandato dall’amico cosa avrebbe fatto, Barragán rispose:
“Io non metterei assolutamente degli alberi e neppure un prato a riempire questo spazio. Deve essere una piazza di pietra, non un giardino… Se tu farai di questo una piazza, otterrai una facciata, una facciata che guarda verso il cielo.”