Il rapporto con l’esterno e con la natura è stato un tema ricorrente nell’architettura giapponese postmetabolista, a partire da edifici come la White U di Ito o Azuma House di Ando, e sviluppato da una seconda generazione di architetti impersonati da SANAA. Una terza generazione sta però ormai prendendo piede, quella di Hiroshi Nakamura, Tomohiro Hata, Takuro Yamamoto e soprattutto di Sou Fujimoto e Junya Ishigami, discepolo proprio della Sejima.
La rilettura proposta da questi ultimi due progettisti è metaforica e sintetica: la natura non è più solamente una dimensione dialettica da integrare agli edifici, ma gli spazi stessi vengono concepiti secondo una logica naturale; non estraggono forme dalla natura, ma principi di organizzazione (o riflettuta disorganizzazione, se vogliamo) e logiche di sviluppo, dando alla relazione naturale/artificiale una nuova dimensione, nella quale l’architetto prova a farsi natura, a pensare con la stessa sua logica.
Il KAIT Workshop del Kanagawa Institute of Technology di Ishigami sembra, a prima vista, uno spazio irrazionale e confuso, senza un principio ordinatore alla base: uno spazio unitario di 2000 m2 è scandito irregolarmente da una serie di 305 pilastri attorno ai quali si raggruppano grappoli di mobili, tavoli, accessori in movimento. Ad accentuare il senso di ‘disordine’ ciascuno dei 305 pilastri è disegnato con una diversa sezione e orientamento rispetto al sistema strutturale della copertura, andando a dare l’impressione di una vera e propria foresta, cangiante secondo i diversi punti di vista.
In analogia allo spazio della ‘caverna’ teorizzato da Fujimoto, Ishigami ci propone qui uno spazio selvaggio, spazio da riconquistare alla natura, quindi primordiale e per certi versi ‘ostile’: attraversando il Workshop si procede cautamente, facendosi strada tra le file di pilastri e cercando di leggere, come tra i fusti di un bosco, un sentiero tra i vari elementi.
Nel tempo, il candido ed etereo aspetto del nuovo edificio si è andato gradualmente perdendo a favore della presenza delle varie seghe, pialle, forni, workshop di ceramica, strumenti per la lavorazione del legno che affollano lo spazio, accentuandone la concezione flessibile e dinamica. L’apparente disordine è comunque in realtà predisposto in modo maniacale e il posizionamento dei pilastri è stato studiato dapprima con enormi schizzi 1:20, poi con una serie di modelli in scala 1:10 e perfezionato infine con un software creato appositamente per questo progetto.
L’elemento piu’ interessante di questo spazio è però quello che non compare su piante o sezioni: è l’uomo, che con la sua attività e i suoi movimenti prende coscienza dello spazio e lo trasforma. In questo senso è interessante notare come sui leggeri ma vari orientamenti dei pilastri si siano basati interi laboratori, come le persone abbiano percepito i limiti di uno spazio nonostante l’apparente vacuità che li circondava. L’uomo costruisce lo spazio, abita il luogo e crea percorsi flebili (sono interessanti le osservazioni ‘etnografiche’ che Ishigami ha condotto con delle telecamere sui vari spostamenti delle persone che attraversavano il Workshop) che si rafforzano nel tempo diventando oggettivi.
Abituati da secoli di linguaggio architettonico sostanzialmente evolutosi linearmente, l’architettura giapponese contemporanea dunque offre nuovi interrogativi e ci riporta indietro a uno spazio primordiale e, forse, liberatorio.