Nello stesso momento in cui un abito varca la soglia di un museo per diventar parte della collezione permanente di esso, una serie di interrogativi di varia natura, estetica, sociale e psicologica si innescano, andando a formare il substrato ideologico che accompagnerà quel pezzo dall’acquisizione all’esposizione. La disciplina che si occupa di determinare e gestire tali dinamiche è il Fashion Curation, una realtà che desta sempre più interesse a livello internazionale, ma che sembra ancora arrancare ad affermarsi nel nostro Paese. Il termine di per sé si presenta di difficile traduzione in italiano: cura di mostre (museali) sul costume parrebbe limitativo e non accurato a riprova del fatto che il Bel paese di Fashion Curation non ama parlare o parla poco.
Proprio per questa ragione abbiamo deciso di parlarvene dato che il Fashion Curation rappresenta proprio un limbo in cui Arte e Moda si incontrano, un territorio in cui ci si dimentica che la moda non possa essere definita arte, ma arte applicata.
L’ambito curatoriale è da sempre stato connesso al mondo artistico: di mostre, personali, performance, collezioni private e pubbliche se ne parla nell’Arte. Il 1972 fu un anno di svolta nella moda, Diana Vreeland cessava il suo operato a Vogue per raggiungere a 70 anni il Costume Institute al Metropolitan Museum of Art come direttore creativo. Pose la firma su un totale di 12 mostre che cambiarono radicalmente la semantica inerente le collezioni di costume nel mondo. Si vennero a creare le blockbuster exhibitions anche nella moda, si iniziò a parlare di Balenciaga, Yves Saint Laurent diversamente, in maniera spettacolare, così da attirare un nuovo fermento. La moda riuscì così a manifestare questa nuova esigenza di elevare la propria dignità artistica e dall’arte andò progressivamente ad assorbire le pratiche curatoriali plasmandole a propria necessità. Il notevole investimento artistico e accademico che si sta compiendo nel mondo della moda ha fatto sì che il Fashion Curation si affermasse sempre più come una realtà contemporanea. Oggi di mostre di moda, fashion galleries o exhibitions si parla comunemente e le realtà più competitive del settore hanno sviluppato dei tagli personali, riflesso di come ogni realtà culturale abbia recepito e sviluppato questo nuovo ambito. Sarebbe impossibile trattare nel dettaglio ogni singola di esse per questo abbiamo selezionato per voi gli esponenti che più ci hanno colpito del fashion curating contemporaneo.
Di Francia si parla sempre quando trattiamo di moda. I nostri cugini d’oltralpe sembrano mostrare più sensibilità di noi nei confronti del loro bagaglio artistico, artigianale e culturale. Svariati sono i musei che ospitano collezioni di costume e non solo nella città di Parigi. L’epicentro curatoriale del momento è sicuramente Olivier Saillard, curatore del Musée Galliera. Molti lo descrivono come un giusto mezzo tra uno storico del costume e uno showman, catturando perfettamente la natura di quest’uomo così innovativo. Olivier non ha soltanto contribuito al dibattito curatoriale con alcune delle mostre di moda più importanti degli ultimi anni, ma ha saputo anche giocare con la tradizione rispettandola, per creare qualcosa di nuovo, le fashion performances, con le quali ha saputo donare dinamicità e lustro alla realtà museale e archivistica. Da menzionare le due performances con Tilda Swinton al Palais de Tokyo nel 2012 e 2013, The Impossible Wardrobe e Eternity Dress.
L’Inghilterra si pone a metà via tra il rigore accademico e la sperimentazione. Gallerie come la Costume Gallery di Judith Clark aperta alla fine dei 90s hanno aperto la strada ad una sperimentazione dialogata, assistita a volte dagli stessi designer della scena londinese, mentre istituzioni come il V&A contribuiscono a mantenere quell’alone di sacralità con cui i britannici sembrano trattare qualsiasi disciplina degna di nota. La realtà più interessante però ci è sembrata il Fashion Museum a Bath, un luogo dove è possibile vedere la magnifica collezione del museo in un design attentamente concepito per lasciare i fruitori stimolati, indottrinati e incuriositi. Gli abiti d’epoca sono esposti in modo da sottolineare la loro funzione di parte di una collezione di archivio, ma è anche possibile giocare con delle riproduzioni e provarle, così come lasciare le proprie impressioni o idee su una bacheca. Inoltre il museo consta di una sezione di moda più contemporanea, la Dress of the Year, dove ogni anno viene scelto un outfit dai catwalk considerato esemplare della moda dell’anno.
Gli Olandesi sembrano essere sempre i più ermetici, ma interessanti. La loro sperimentazione anche in questo campo si presenta come unica nel suo genere. Percepiscono la moda e amano esaltarla in un connubio di interdisciplinarità, pertanto andare ad una mostra ad Arnhem per esempio alla Biennale della Moda (tenutasi l’estate scorsa) potrebbe rivelarsi davvero eccitante. Tra musiche, design estremi, pezzi unici e interazioni varie si carpisce il senso dell’apprendere divertendosi.
Gli Americani si affermano fedeli alle loro mostre d’effetto della scuola Vreeland. Ogni cosa diventa enorme negli States. New York sembra essere la realtà più sensibile al Fashion Curation, con musei da capogiro, scuole di altissima specializzazione ed eventi mondani connessi. Come on! Chi non sognerebbe di prender parte al Met Gala anche solo per un anno?
E l’Italia? Italia, mia bella Italia è ora che ti svegli. Di attività e iniziative ce ne sono, la maggior parte nemmeno concentrate in un unico centro come di solito accade, ma si distribuiscono su tutta la penisola. Il problema è che la gente non pare rispondere come dovrebbe a questa offerta. Si vedono milioni di studenti iscritti a corsi di moda in Italia che sembrano ignorare che moda è anche questo. Per chi fosse interessato ad approfondire il Fashion Curation, l’università IUAV di Venezia offre corsi magistrali inerenti, lectures e simposi con grandi esponenti del settore coordinati da Maria Luisa Frisa, una delle curatrici più interessanti del curating italiano contemporaneo. Di grandi fashion curators in Italia ne abbiamo, molto decidono di andare via, il pubblico dovrebbe diventare un po’ più consapevole per apprezzarli.