Periferia meridionale di Marsiglia, Cité Radieuse.
Lʼedificio, progettato da Le Corbusier e realizzato tra il 1947 e 1952, è unʼicona del Movimento Moderno e rappresenta la prima emblematica concretizzazione delle utopie urbanistiche prospettate dal maestro svizzero nel decennio precedente.
Un edificio ingombrante, in tutti i sensi, che oltre alla qualità architettonica, ricerca esplicitamente un rapporto dialettico con il contesto paesaggistico in cui si inserisce.
È in questa cornice, sul toit terrasse (tetto a terrazza, uno dei cinque punti dell’architettura moderna stilati da Le Corbusier), che è stato inaugurato nel 2013 lo spazio espositivo MAMO – Marseille Modulor, in occasione della designazione di Marsiglia come Capitale Europea della Cultura. Uno spazio di per sé suggestivo, dove in una mattina di sole o alla luce crepuscolare dei tardi pomeriggi mediterranei, è possibile ammirare lʼaffascinante allestimento site-specific dellʼartista francese Daniel Buren.
Défini, fini, infini è la seconda esposizione estiva curata da Ora-Ïto, dopo lʼinaugurale Architectones dello scultore Xavier Veilhan.
“[the building] Itʼs like a white piece of paper – every year an artist has to create something from scratch. But this is a deconstruction of the building – no-one has ever seen the Cité Radieuse like this.”
Ora-Ïto
Non è un percorso facile quello dellʼartista che si trova a doversi confrontare con un tale capolavoro architettonico: la soluzione presentata da Buren interagisce fortemente con le geometrie e la struttura dellʼedificio, assecondando allo stesso tempo lʼintenzione curatoriale di sfuggire allʼombra pesante della figura di Le Corbusier. I pilastri che compongono lo scheletro edilizio si prolungano così idealmente nella griglia di bassi parallelepipedi decorati dalle ricorrenti strisce verticali, lo skyline fatto di alti edifici e montagne in lontananza si arricchisce di elementi monocromi alternati a frammenti riflessi di cielo, il camino scultureo viene reso fluttuante mediante uno specchio che ne nasconde la base, amplificando lʼinstallazione stessa, mentre i moduli della vetrata dellʼex-palestra si colorano di toni sgargianti come un Mondrian in versione pop e un grande pannello posto in corrispondenza di uno dei lati brevi della terrazza inquadra e frammenta le linee rigide dei corpi in cemento armato.
Daniel Buren si dimostra ancora una volta un interprete attento della dimensione spazio-temporale di cui la sua opera intacca lʼequilibrio, capace di scomporre e ricreare una collezione infinita di nuovi mondi riverberati ed astratti.
Riesce dunque nel duplice intento di proporre una nuova prospettiva dʼosservazione su uno spazio già di per sè finito e pensato nei minimi dettagli, conosciuto e studiato come pochi altri (dagli addetti ai lavori, perlomeno), e di assecondarne contemporaneamente le insite vocazioni di tipo compositivo e dʼinterazione col paesaggio circostante.
Unʼinstallazione che merita di essere vista, anche solo come pretesto per riscoprire quell’ingegnosa macchina architettonica che è la Cité Radieuse.