Abbiamo incontrato Alessandro Vizzini, artista sardo che con un approccio concettuale lavora attraverso elementi naturali sul dialogo tra materia e immagine. Snaturando questi elementi porta ad un altro livello le sensazioni degli spettatori in cui l’aspetto prettamente fisico e concreto va oltre ogni spiegazione legata alle sue opere d’arte per l’invito che danno all’esperienza.
Quali artisti fanno parte della tua formazione e che tipo di bagaglio culturale hai?
La mia prima formazione culturale viene dalla “terra” di casa e anche, come è solito dire, dalla “strada”. Lì ho avuto i primi imput che mi hanno fatto capire poi di voler intraprendere questa via in maniera più concreta. Per il resto è accademica, con una particolare attenzione ad argomenti e studi che possono sembrare lontani dall’arte, ma che in realtà ne fanno parte integrante. Mi riferisco ad esempio alla geometria, la chimica, la geologia, la fisica e tutto quello che serve per comprendere la natura.
Cagliari, Roma, Barcellona, Rejkavik: hai avuto modo di poter affrontare realtà diverse, puoi delineare punti di contatto e di divergenza nei luoghi dove hai soggiornato, almeno nel contesto dell’arte?
Sono realtà diverse che ho affrontato in periodi diversi della mia strada. Cagliari è dove sono nato e ho affrontato le prime esperienze, Roma è stata invece la prima vera formazione in cui ho trovato un piano stabile di lettura del mio lavoro, attraverso alcune figure di riferimento. Barcellona ha aperto il pensiero sulla mia ricerca, l’apparato concettuale libero dai “dogmi”. L’Islanda invece ha innescato un approccio molto legato all’aspetto sensoriale, emotivo ed introspettivo; la forza di quella “materia” in movimento, in trasformazione, implica una accurata riflessione. Tutti questi posti hanno delle differenze sostanziali, ma anche dei piccoli punti di contatto, che comunque non riuscirei ad analizzare in modo consono ed esaustivo.
Produci disegni, dipinti, fotografie, installazioni, sculture e talvolta performance. Pensi che qualcuna di queste manifestazioni sia più specificamente adatta alla tua ricerca?
Credo che trattandosi appunto di ricerca, il mezzo specifico non sia determinante poiché il mezzo è a servizio di un pensiero che può essere più risolutivo in una forma piuttosto che in un’altra. È anche vero che la mia ricerca indirizzata in particolar modo sulla materia ha di conseguenza dei risvolti particolarmente più scultorei e/o comunque spaziali.
Ma il tutto è un apparato connesso tra queste manifestazioni e la processualità tra la forma, il pensiero e la sostanza.
Parliamo adesso della tua esibizione “Post Islanda – Catabasi con Giardino Giallo”: come mai la scelta di andare in un Paese così inusuale ed accostarlo poi con l’Ade, visto che la Catabasi, etimologicamente parlando, è la discesa negli Inferi, luogo che sembra caldo, lontano anni luce dai ghiacci islandesi?
L’Islanda è un paese di contrasti e di opposti dove i ghiacciai convivono con il fuoco e la lava dei vulcani. Questi sono degli Ipogei naturali in cui è possibile scendere negli Inferi: nel “Viaggio al centro della terra” di Jules Verne ad esempio un vulcano islandese viene indicato come il punto per poter arrivare a questo “centro”. Il viaggio catabasico negli inferi lavici della propria anima, viene contrapposto all’etimologia greca della parola Catabasi che significa fare una spedizione dall’interno verso la costa, al contrario l’anabasi sarebbe il viaggio dalla costa verso l’interno, perciò prendendo di fatto che il termine anabasi in greco significa andare in salita, geomorfologicamente parlando questo concetto potrebbe essere giusto, ma comporta comunque una dinamica di relazione di opposti, come in questo caso tra materia e spirito che è insita nella natura di tutte le cose.
“Il Giardino Giallo” mi rimanda invece ad un altro continente, l’Asia. Nel tuo lavoro macrocosmi si fondono con microcosmi. Come riesci a trovare un punto di equilibrio tra questi due grandi mondi?
Forse perché essendo immaginifico, il Giardino Giallo è per me un luogo metafisico di sospensione, di attesa, molto più legato a certi concetti spirituali orientali. Cerco innanzitutto di trovare un equilibrio in me e nel mio lavoro, il microcosmo e il macrocosmo sono sempre stati in equilibrio tra loro, sono un tutt’uno, la sfida è avere l’umiltà di comprenderli per comprendere se stessi.
L’energia materiale degli oggetti è costantemente ghigliottinata dall’energia spirituale che fa parte della tua sensibilità. Cosa ti ha portato al punto di non ritorno di “smaterializzare la materia”?
Smaterializzare la materia è un compito che spetta ai fisici, magari potessi farlo. La materia tutta, come gli oggetti, è fatti di energia spirituale, i vari livelli di cui è composta spetta a noi alimentarli e essere aperti a percepirli. Ogni tipo di materia ha un’energia una sua forza. Io ho un piano di lettura in cui le immagini e il suono debbano essere affrontate come un’esperienza, questo comporta un certo rilascio di energia che rimbalza tra una cosa e l’altra.
In un’opera precedente come “Senza titolo (il peso della mia luce)”, crei dei cortocircuiti materici dove da dei minerali vergini nascono prismi e forme vive e quindi appunto pesanti. Come puoi, e se nell’intento ti sforzi, rendere tangibile un’espressione che teoricamente non lo è ?
In realtà è solo la natura del minerale che viene messo nell’ottica di poter mostrare uno stato della conseguenza. È un passaggio normale di trasformazione che è in qualche modo manipolato per esaltare le sue capacità. La solidificazione o lo scioglimento che si poteva vedere in quell’opera è solo un processo inevitabile nella formazione di qualsiasi tipo di materia.
In relazione alla tua opera, “Quando il creare trasforma il fare”, ritieni di poter trasformare la materia e permetterle di avere essa stessa una propria autonomia tale da poter far interagire il pubblico modificando ulteriormente il corpus dell’opera?
Cerco sempre di trasformare la materia e interagire con essa in modo che possa avere una sorta di propria autonomia, una vita propria, che questa poi sia viva, cioè visibilmente in movimento o no, capita a seconda dei casi. In quest’opera è il materiale stesso che decide nell’atto del “fare” le sue soluzioni migliori, i movimenti per autocrearsi e rendersi autonoma, avendole dato solo alcune direzioni da seguire. Mettendosi in esposizione diventa autogovernante e non soggetta a ulteriori modifiche.
Parlaci, se puoi, di prossimi progetti futuri.
Ci sono alcune proposte da definire e una collaborazione con un altro artista per un progetto molto interessante di cui comunque è ancora presto parlarne. Nel frattempo mi sono spostato a Berlino dove lavorerò ad una nuova serie di opere che si uniranno ad un primo step già iniziato quest’estate mentre stavo a Cagliari da cui forse nascerà una mostra autoprodotta in uno spazio privato, personale.