La Milano Fashion Week si è da poco conclusa immergendo la città in un vento di piacevole perplessità.
Molti i brand, emergenti e consolidati, che hanno presentato le loro visioni creative con il risultato finale di una donna che riconferma i propri valori estetici. Nuove stelle hanno affiancato pietre miliari del fashion-system italiano, pensiamo ad un Giambattista Valli con la sua linea Giamba, Marco De Vincenzo ex di Fendi, Fausto Puglisi già direttore artistico di Ungaro, Au jour le jour. Il ritratto della donna milanese che ne è emerso è quanto mai corroborativo dell’ideale alto-borghese che essa ha sempre incarnato: una donna che esprime la sua eleganza vestendosi questa volta di un nuovo minimalismo, più rivolto alla finezza delle manifatture che agli effetti scenici. Le forme e i tagli seguono linearità asciutte con cromatismi delicati che variano dal grigio al sabbia passando per il ghiaccio. Anche quando subentra la stampa l’effetto risulta attenuato. Bottega Veneta, Cristiano Burani, DROMe, Maurizio Pecoraro, Marni hanno esposto semantiche snelle impreziosite da giochi colorici strategici, volumi calcolati e stampe delicate che paiono posti sui capi come disegni. La delicatezza di questa figura quasi eterea si intravede negli abiti di Alberta Ferretti che non si esime dal giocare con materiali come il tessuto jeansato per esprimere leggiadria o che riprende il tema del corredo tradizionale per trarne abiti dalle sottili trasparenze alludenti ad un’estetica da boudoir. “Re Giorgio” ci presenta le sue donne misteriose da salotto, Aquilano. Raimondi ci regalano una magnifica fanciulla che sboccia, mentre Luisa Beccaria delle bellissime donne fatate.
Milano al contempo è anche patria della femminilità italiana procace, colorata, non per questo ostentata, ma delicata. Antonio Marras con i suoi accostamenti cromatici da scolaretta spensierata, Au jour le jour con le sue tipiche ma temerarie paillettes e Missoni con colorazioni da località balneare.
La città meneghina è nostalgia e quindi evasione sia spaziale che temporale: pensiamo alle donne ispanico-siciliane di Domenico & Stefano, gli africanismi di Stella e i richiami 70s di Pucci e Gucci. Milano infine è piacevole sorpresa come le sperimentazioni di tessuti e tagli di Versace e Marco De Vincenzo e le geometrie ponderate di Uma Wang e San Andrés Milano.
Cosa ci ha lasciato questa fashion week: sicuro il piacere di aver assaporato i prodotti di un bello oggettivo, ma nel soggettivo non riusciamo a toglierci di dosso la sensazione che qualcosa sia mancato. Lungi da noi porci sulla scia di pensiero che l’Italia stia attraversando una crisi culturale oltre che materiale, ma un minimo di autocritica è sempre costruttiva. Delle considerazioni da premettere sono d’obbligo: Milano è uno di quei centri in cui l’elemento di nazionalità si sente forte. New York, Londra e anche Parigi in fondo, sono delle piazze di moda in cui convergono creatività culturali diverse, variegate, che sebbene siano naturalizzate in quei luoghi comunque mantengono patrimoni folcloristici diversi. Milano è un centro che mantiene un controllo creativo in prevalenza italiano pertanto è un circuito che presenta caratteristiche più monolitiche. Una delle critiche che maggiormente ci viene mossa negli ultimi anni è l’ostentazione convinta di tutte quelle caratteristiche che formano l’italianitas: il perenne riferirsi ad un passato ormai trascorso, il non andare oltre i parametri che le nostre tradizioni e noi stessi ci imponiamo, la povera sperimentazione e proiezione verso tematiche di moda più contemporanea. In realtà la moda milanese andrebbe compresa per quello che è, ossia lo specchio dell’italianità che sempre si rifarà alla sua age d’or, che difficilmente romperà le proprie tradizioni, che mai tradirà il suo ideale di donna elegante, ma casual, ricca di dettagli e tradizionalista. La questione della presunta o meno crisi della creatività è degenerata in un vero e proprio dibattito iniziato dal famigerato articolo del The Independent in cui la situazione milanese veniva definita “un vero problema da risolvere”. Superando l’ iniziale rigetto provocato da un orgoglio nazionalistico, il pezzo andrebbe letto attentamente come un esercizio spirituale. Le accuse mosse altro non sono che considerazioni su un sistema che potrebbe dimostrare più ordine, rispetto per i giovani e riciclo di idee. Non è una novità che le istituzioni non sostengano degnamente la moda italiana, che i giovani siano costretti ad andare via per darsi una possibilità, che si tema per il riciclo di nuove personalità adesso che le vecchie sono ormai al tramonto. La moda italiana non può continuare ad ergersi solo sui grandi nomi, così come è giunto il momento che essa venga presa più sul serio da un’Italia stessa che pretende, ma vuole dare solo alle sue condizioni.
La presunta crisi del nostro Paese non è certo una crisi di creatività, ma è il segno di un cattivo funzionamento dell’informazione, dell’istruzione e delle istituzioni. Le tre “I” stanno lentamente corrodendo la nostra grandeur nei confronti del mondo e questa cosa dovrebbe toccarci, non poco. Quando parliamo di crisi dell’informazione alludiamo alla pessima capacità degli italiani di trasmettere un bagaglio di tradizioni appartenenti al nostro patrimonio artigianale e culturale, ma anche le varie iniziative tese a metterle in mostra. L’italiano medio di oggi si ritrova messo all’oscuro del proprio stesso DNA che, lasciato nel dimenticatoio, sta progressivamente scomparendo. Inoltre il dilagante non sapere delle masse sta accrescendo la voglia di ignorare e non si può costruire un futuro sulla conoscenza del passato dei pochi. Le istituzioni dovrebbero muoversi verso la tutela delle poche imprese ancora esistenti detentrici di antichi saperi, pensiamo ai ricamatori di Alta Moda, ai liutai, agli artigiani dell’oro, ai lavoratori del corallo. Inoltre le nuove tecnologie dovrebbero servire a mantenere alta la pubblicità delle iniziative promuoventi tali realtà, così che si possa mantenere aperto un dialogo costante tra preservazione e innovazione. Altro anello debole della catena è l’istruzione. L’Italia pullula di scuole, accademie, università di moda, sia pubbliche che private, molto prestigiose e ambite da studenti sia italiani che stranieri. Si ha tuttavia l’impressione che il sistema educativo artistico in Italia manchi di un’adeguata selezione nei vari centri educativi. L’Inghilterra, che è da sempre considerata un centro per l’educazione di moda, applica delle norme di selezione durissime per gli aspiranti professionisti, con corsi che arrivano a contare fino a soli 4,6 studenti. Quelli che riescono a giungere alla fine possono davvero considerarsi tra i migliori. Nel nostro Paese ciò avviene raramente: ci stiamo trasformando in esperti di moda qualunquisti, dove ognuno si considera designer o stylist non comprendendo la peculiarità delle figure professionali che obbligano ad avere non solo una giusta formazione, ma anche un dovuta predisposizione d’animo.
Ultima piaga: le istituzioni. Sono in molti a lamentarsi della disorganizzazione della “settimana milanese”, fatta per lo più di prime donne che impongono ad un sistema tempistiche non sempre in linea con le esigenze. Tra l’altro quando poi si dovrebbe usare questo vezzo come un’arma di denuncia, non viene fatto. Pensiamo ad un Armani che la stagione scorsa decise di mettere la sua sfilata l’ultimo giorno per mantenere i riflettori accesi sulla città fino alla fine. Mossa che non sortì l’intento desiderato visto che Anne Wintour partì per Parigi anticipatamente. Questa stagione si sarebbe potuto puntare su un’azione simile collettiva, i grandi nomi avrebbero potuto coalizzarsi per sfilare quanti più alla fine,anche solo per dimostrare un vero senso di coesione tra gli stilisti italiani.
A conclusione della breve disamina, l’unica cosa che non possiamo rimproverare alle istituzioni è l’intensiva attività di scouting che stanno svolgendo in questi anni, anche con il supporto dei privati; tuttavia il vero problema sembra rimanere che i giovani italiani hanno bisogno di chi creda realmente in loro, di chi in loro veda un futuro concreto, solo così potranno affiancare in dignità e importanza i grandi di ieri.
*Una quasi diciottenne, Mariateresa Federico, alla ricerca del suo sfogo artistico. Si diletta con la musica, l’opera e la moda. Le piace osservare ciò che le accade intorno e rielaborarlo a parole sue. Oggi interpreta la Milano Fashion Week per Artwort.