A seguito dell’inaugurazione del Guggenheim Museum di Bilbao, progettato dall’architetto Frank O. Ghery, il dibattito ha assunto una dimensione squisitamente internazionale ed oggi ci si interroga: “È il museo che deve attrarre per ciò che conserva ed espone, oppure è l’opera architettonica che deve indurre alla curiosità?”
Questo articolo non ha alcuna pretesa di dare un giudizio in merito né di proporre una soluzione, ma racconta un’esperienza architettonica che potrebbe essere lo spunto di una più articolata e profonda riflessione. Si parla di sperienza architettonica nel senso più romantico del termine, si potrebbe altresì prendere in prestito il concetto di “Epiphany” da James Joyce, per riuscire a delineare, nel modo più comprensibile, le riflessioni che suscita l’ingresso alla Fondation Beyeler.
Andiamo con ordine, la Fondation Beyeler è un museo privato, progettato dall’architetto Renzo Piano negli ultimi anni Novanta. Sorge a Riehen, al nord di Basilea, ed è stato concepito per accogliere, esporre e valorizzare la collezione dei coniugi Ernst e Hildy Beyeler, art dealer.
Nonostante la firma blasonata, la struttura che ci appare attraversando il giardino è tutt’altro che un museo-landmark.
Scopriamo lentamente, avvicinandoci, un’opera architettonica delicatamente inserita nel contesto per il quale è stata progettata, in cui, le scelte materiche e coloristiche ci inducono a pensare a Basilea e al suo nucleo più antico, l’Alt Stadt.
Le ampie superfici vetrate e gli spazi esterni coperti assicurano mutui rapporti tra il museo e il paesaggio attraverso contatti visuali, effetti luministici ed interessanti deviazioni di percorso. È una struttura che, una volta vista, possiamo immaginarci solo in quel preciso luogo, con quelle forme, una struttura che potrebbe essere lì da sempre.
Entrando si è risucchiati da un vortice di sensazioni, impressioni, fino a sentirsi parte attiva di questo spazio fluido, luminoso, etereo, concepito in funzione della collezione e di colui che ne fa esperienza.
Lo spazio è bianco, lo sono i setti e i tamponamenti, i soffitti, le rifiniture e su questo bianco si stagliano le opere, silenziose nelle loro cornici, indiscusse protagoniste. Nulla, non una scritta, un filo allarmato, un tirante, si pone tra l’opera e il visitatore.
Si è soli davanti a quello che per anni è stato definito dalla storia dell’arte, “Il bello”.
Si instaura una dimensione familiare, quasi domestica tra arte e uomo, il visitatore può sentirsi egli stesso il collezionista.
E l’architettura? È una costante, presente sotto le vesti di muta scenografia, comunque indispensabile, ci accompagna lungo il percorso espositivo regalandoci le accortezze necessarie che arricchiscono la nostra esperienza. La copertura in vetro, schermata da lamelle orientabili, assieme alle grandi vetrate, assicura la penetrazione di una luce diffusa, le comode sedute danno un ritmo alle nostre pause e il giardino d’inverno, pensato al contempo come belvedere e come punto relax, stuzzica la nostra curiosità lasciandoci a portata di mano volumi e cataloghi.
Il percorso espositivo prosegue sinuoso lungo le sale in cui si sperimentano interessanti costruzioni prospettiche che hanno il loro fuoco in una scultura di Alberto Giacometti piuttosto che in un’installazione di Alexander Calder o in un dipinto di Gustave Courbet.
La visita si conclude con tre sale al piano semi interrato, l’ultima delle quali ospita il laboratorio di diagnostica e restauro. Lì, esposto come fosse un’opera d’arte, il lavoro di conservazione, svolto all’interno del museo, viene comunicato e quindi valorizzato. Il museo si presenta al suo pubblico come organismo vivente che conserva, restaura, valorizza.
Ed è proprio questo modo di rapportarsi al visitatore, rendendolo in qualche modo partecipe della propria vita, a rendere la Fondation Beyeler differente da altri spazi espositivi. Si discosta dal cubo bianco impersonale che ospita collezioni temporanee o permanenti creando uno spazio asettico, ma è anche quanto di più diverso da un museo, mera espressione di un progetto architettonico volto a stupire.
È un edificio in cui arte e architettura si mescolano in un perfetto connubio di equilibri, ognuna preserva il suo ruolo esclusivo e la sua grandezza, ma entrambe avanzano parallelamente per rendere la fruizione il più possibile vicina ad un’esperienza. Sicuramente l’abilità di Renzo Piano e l’esperienza artisitca|curatoriale di Ernst Beyeler hanno dato vita ad un luogo in cui sentirsi a proprio agio, in qualche modo a “misura d’uomo”, in cui il visitatore riesce a sviluppare un senso di appartenenza.