A metà strada tra la fotografia e la denuncia, Mitch Griffith usa lo strumento di rappresentazione più antico al mondo, la pittura, per affrontare tematiche più che mai attuali. Tra sacro e profano, la pittura di Griffith approda con un approccio prima molto sfocato poi sempre più nitido, al fine di esaltare agli occhi del mondo quei particolari che rendono le scene attuali e che sono la principale causa del suo racconto.
La pittura, eseguita con la maestria dei più grandi pittori del passato, diviene segnalazione di un mondo corrotto e malato, dove la morale viene surclassata per una serie di elementi “altri”: droghe, mass media, alcool, denaro. Ed ecco che carte bancomat si trasformano in una corona di spine, donne ossessionate dall’idea di perfezione si tramutano in una perfetta citazione alla “Pietà” di Michelangelo.
Il richiamo alle opere più classiche si converte in questo modo in uomini e donne con sguardi persi, talvolta fissi e al contempo vuoti, in corpi segnati da graffi, tagli, tatuaggi, simboli iconici del male sorto nel secolo passato, che ancora oggi esiste ed esisterà.
Con le sue opere, Griffith realizza una dichiarazione tacita: non sembra criticare questo mondo malato, ma si limita ad esporre al pubblico ciò che oggi schiavizza l’uomo, spesso dipingendolo in una scena da martirio, altre volte evidenziandone l’inconscia sicurezza e volontà.
L’arte di Griffith è semplice e forte: fondo scuro, uniforme, immagine centrale, nitida, ben illuminata, pochi dettagli, precisi, poche persone sulla scena, pose che possano rievocare immagini o opere già viste, purché trasportate nel nostro tempo.
Una pittura analitica, che rende gli ultimi 20 anni di secolo in uno studio sulle debolezze, le fragilità, la vanità e futilità della nostra società, oramai in decadenza e rovina.