Una delle innumerevoli identità di cui l’uomo bianco occidentale ha depredato l’umanità è quella delle donne. Da quando la società matriarcale è tramontata, migliaia di anni fa, la donna è rimasta in silenzio in un angolo, si è fatta oggetto di proprietà, strumento e mezzo, come moltissime altre cose.
Certo anche nell’oppressione esistono posizioni più e meno privilegiate e le componenti spazio-temporali sono tanto varie da impedire una generalizzazione plausibile, ma questi sono dettagli in confronto all’elefante nella stanza e – a questo punto – la situazione alle nostre latitudini si potrebbe descrivere all’incirca così: l’assenza della donna è tanto assordante quanto la sua presenza nelle vite di tutti noi. La donna in fondo ha fatto la stessa fine dell’individuo o della libertà: figure onnipresenti in pubblicità e in propaganda,in realtà mute, rimosse, negate. Virginia Woolf descriveva così questa contraddizione, già cruciale nella letteratura di età elisabettiana:
Ne emerge un essere molto strano e composito. Immaginativamente, ha un’importanza enorme; praticamente è del tutto insignificante. Pervade la poesia, da una copertina all’altra; è quasi assente nella storia. Nella letteratura, domina la vita dei re e dei conquistatori; nella realtà era schiava di qualunque ragazzo i cui genitori le avessero messo a forza un anello al dito. Dalle sue labbra escono talune delle parole più ispirate, alcuni tra i pensieri più profondi della letteratura; nella vita reale non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena ed era proprietà del marito.
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
L’identità che è stata cucita sulla donna non è la sua vera identità. Quella vera le è stata tolta violentemente, attraverso lunghe e perseveranti pratiche, ed è stata sostituita con un’altra, funzionale a ciò che la società si aspetta da lei. Infondo la donna ha fatto la stessa fine della Natura, dei nativi americani, degli africani deportati. La narrazione che riceviamo di lei, la maggior parte delle volte, non è stata autoprodotta. La donna ha cercato di ricostruirsi un’identità nel tempo, ma questa è piena di buchi, di lacune irrecuperabili, di storie rimosse con mano chirurgica e precipitate nel fondo dell’abissale oceano dove vengono gettati tutti gli scarti prodotti dalla narrazione ufficiale. Qui sta tutta la difficoltà. In fondo la donna ha fatto la stessa fine dell’uomo.
Mary Beth Edelson, artista newyorkese, reinserisce la donna all’interno del nostro immaginario. Nelle sue opere la donna non è più accessorio, ma rientra nel mito, nella natura, nella storia. Assume spessore, profondità, complessità. Il suo corpo nudo è finalmente corpo e basta, non tabù, né feticcio. I volti e gli sguardi femminili irrompono con un’ironia solenne tra gli scenari dell’arte e della cultura popolare, si fanno protagonisti liberandosi dal giogo della grazia, della seduzione, della castità, dell’amore sentimentale, della stregoneria, della lussuria, dell’inferiorità, dell’isteria, della cura. La donna non è più rappresentazione parziale del genere umano. Essa, riconciliandosi in modo mitico, alchemico con la natura, nelle opere di Edelson, riconcilia il genere umano tutto con la possibilità che forse avrebbe potuto essere ma non è. Nell’ultima cena (Some living women artists) non sono Cristo e gli apostoli che si fanno donne, sono Nancy Graves e le artiste sedute intorno a lei che si fanno radici, origini mitiche, capisaldi nella costruzione di un’identità perduta. L’universo è tutto al femminile e nello stridere di una visione come questa che pure è ironica, emerge con tanta più evidenza lo stridere dell’altro universo, quello tutto al maschile.