“It’s almost like we could read their minds while watching this surreal dance of passage and departure. What looks like snapshots, on first sight, becomes more and more mysterious the longer we look at these pictures. Does the strange perspective remind you of pop-up-books?”
J. Scriba raccoglie diverse serie (Pinakothek, Airport, Escalators, Stairs, Paternoster, Travellers, Beautiful fear e Summer City) in una macro serie denominata “situ art”, titolo che vuole fare riferimento ad un’arte creata in o in relazione ad un posto specifico (“in situ”).
Questo progetto di spazi pubblici come aeroporti, stazioni, o grandi edifici, non ritrae una vista concreta, ma piuttosto cattura l’essenza di una situazione: una raccolta di persone connesse da obiettivi comuni o interessi e il desiderio di comunicarli agli altri e a ciò che li circonda.
Abbandonata l’idea di usare la sua macchina fotografica per creare l’immagine di un determinato momento, J.Scriba cattura la composizione di vari momenti decisivi. Proprio come se si trattasse di un esperimento scientifico, imposta la macchina fotografica per scattare automaticamente ogni qualvolta un corpo entra nel suo campo visivo. In seguito, le sue immagini vengono create grazie al montaggio di diversi fotogrammi, catturati in una stessa location e nelle stesse condizioni di luce, di diversi individui ognuno con la propria occupazione e la propria direzione.
Affascinati ed incuriositi dal suo lavoro e dalla sua interpretazione del concetto di spazio, tema centrale della serie, gli abbiamo posto qualche domanda.
Innanzitutto, potrebbe raccontarci qualcosa di lei, dei suoi studi e come il suo interesse per la fotografia è nato?
Sono un fisico per formazione. Ho ottenuto un dottorato di ricerca in fisica dei semiconduttori all’Università di Monaco di Baviera. Ho anche studiato giornalismo, perchè volevo diventare uno scrittore scientifico, e nel diventare redattore è stato quasi naturale per me iniziare a scattare foto per le mie storie. La fotografia era già un hobby da diversi anni, ma poi mi ci sono dedicato professionalmente in un contesto editoriale. Questo è avvenuto negli anni ’90, quando le riviste tendevano a dare ampio spazio alle strorie scientifiche usando fotografie in stile CSI, per cui viaggiavo con un sacco di attrezzi come flash per illuminare i laboratori dalle configurazioni piuttosto elaborate. In un certo senso, la fotocamera è stata sempre una sorta di strumento scientifico per me, per visualizzare (o “misurare”) spazi o oggetti impostati in un modo che ricorda molto il modo in cui imposterei un esperimento fisico.
Con riferimento alla serie “situ art”, potrebbe spiegarci il suo progetto e com’è nata l’idea?
Sono fortemente influenzato dal lavoro di Eadweard Muybridge. Egli scattava mentre i suoi attori facevano determinati movimenti – alcuni dei quali sembrerebbero quanto meno bizzarri, oggi. Quando ho cominciato a lavorare negli spazi pubblici, inizialmente per scattare sequenze in timelapse, mi sono reso conto di come le persone sembrano esibirsi in certi rituali che sembrano riflettere lo spazio all’interno del quale si muovono, o addirittura sono in contraddizione con quello che ti aspetteresti di vedere. Per esempio, sono rimasto sorpreso di vedere quanto “private” sembrano essere le persone nella folla di una stazione mentre sono sulle scale mobili.
Il termine “Situ Art” è venuto fuori in riferimento al “Situs”, il luogo che è riflesso nelle fotografie, anche se lo spazio stesso non è realmente visibile nella composizione finale.
Come spiegherebbe il concetto di spazio e quanto può influenzare una persona?
Suppongo ci sia qualche tipo di concetto comune di cosa aspettarsi da uno spazio e come comportarsi in certe situazioni. D’altra parte, una situazione come viaggiare in aeroporto impone certi comportamenti. Ad esempio, tutti quelli che camminano verso il check-in devono essere certi di avere i biglietti pronti. E non importa quanto tu sia sicuro che tutto è al proprio posto, vedrai comunque la maggior parte delle persone controllare le proprie tasche alla ricerca dei biglietti.
Che connessione c’è tra lo spazio fisico e quello psicologico e quanto un diverso spazio urbano può influenzare questa connessione?
Sarebbe davvero interessante analizzare questo fattore in diverse culture. Sono abbastanza sicuro che lo spazio urbano comporti dei cambiamenti sullo spazio psicologico delle persone che lo abitano. Presumo che la particolare strategia di ignorare gli altri ad una distanza tanto ravvicinata è un comportamento che si è acquisito in un preciso ambiente.
I posti in cui lei scatta sono i cosiddetti “non-luoghi” nella specifica definizione data da Marc Augé. Cosa ne pensa? Perchè ha scelto proprio questa tipologia di luoghi?
Penso che Augé abbia coniato il termine “non-luogo” per indicare che le persone possono vedere quei luoghi come generici ed intercambiabili. Anche se questo può essere vero psicologicamente, non si è rivelato essere vero in termini fotografici. È incredibilmente difficile trovare luoghi e angolazioni di ripresa che consentono il tipo di tecnica di montaggio che uso. Lo sfondo delle mie foto è sia astratto che reale. L’architettura è quella reale, spesso geometricamente distorta, che serve per formare la griglia di riferimento all’interno della quale si muovono le persone. Su questo piano, quei “non-luoghi” non sono così uniformi rispetto a come potremmo percepirli. Ci sono diverse variazioni nella texture di superficie e sottili variazioni di luce che vanno contro il concetto. Quando ho scattato la serie Airport la luce cambiava di minuto in minuto, cosa che non avrei mai pensato all’interno di un edificio. In un certo senso, è come se l’edificio fosse diventato uno spazio aperto vista la sua ampiezza. Sono anche abbastanza certo che strutture come la stazione centrale di Berlino sono percepite come luoghi più che come edifici. Ho passato diversi giorni in quel posto e per me dà una sensazione ben precisa.
Come, secondo il suo parere, tutte quelle persone, sconosciute, “chiuse” nello stesso luogo possono influenzarsi le une con le altre?
C’è molta ricerca riguardo i movimenti delle persone in posti affollati che usano equazioni a partire dalla fluido dinamica al modellare i movimenti collettivi sotto determinate condizioni. Ironicamente, le persone diventano molecole più che individui, una volta che vi sono abbastanza elementi nella “scatola”. L’aspetto fisico sembra essere ben chiaro. L’aspetto psicologico è certamente molto più complesso. Penso che ci siano due meccanismi opposti: cercare di ricavare il tuo spazio personale ignorando gli altri, e aspettarsi che gli altri facciano lo stesso, mentre allo stesso tempo si cerca di conformarsi ad una sorta di codice di condotta collettiva.
Per raggiungere il risultato mostrato nelle sue foto c’è bisogno di migliaia di scatti. Che elementi deve avere lo scatto giusto?
Non seleziono gli scatti per un determinato contenuto. La gran parte della selezione è puramente tecnica: la necessità di avere una struttura accessibile e determinate condizioni di luce può funzionare o non funzionare per il montaggio. Sorprendentemente, la maggior parte delle foto hanno queste caratteristiche, mi permettono anche di avere bei ritratti. Non sono sicuro di come questo accada. Succede esattamente l’opposto di quello che si dice della necessità di comunicazione tra il fotografo e il soggetto. Forse è vero esattamente l’opposto. Si ha bisogno di abilità comunicativa semplicemente perché le persone di fronte alla fotocamera si sentono vittime della persona che la controlla. Una volta che la macchina fotografica diventa un mero strumento per registrare, questo ostacolo è superato.
Quanto è importante per lei il processo di post-produzione?
È la fase dove in realtà vengono create le mie fotografie. L’esposizione della fotocamera è solo un flusso di immagini, singoli pezzi di informazioni, dati grezzi, che ottengono significato creativo solo in questa fase di montaggio. Così il “post” in “post-produzione” non è propriamente corretto. Piuttosto, per me la fase di scatto è “pre-produzione”.
Ultima domanda: a cosa sta lavorando ora e quali sono i suoi progetti per il futuro?
Ho iniziato a lavorare sulla mia serie “Elementi” e ho iniziato a sperimentare con il fuoco. Successivamente sono passato all’acqua, ma purtroppo sono stato impegnato in vari progetti commerciali. Spero di poter tornare a lavorare presto su questa serie.
Ringraziamo J.Scriba e se desiderate scoprire di più su Situ Art o su altri suoi lavori, non esitate a visitare il suo sito.