La decomposizione è un processo che genera ripugnanza. La natura disfa corpi e individui, e si riappropria degli elementi che li compongono nel modo più avvilente possibile, degradandoli a scorie repellenti. Tuttavia il continuo rigenerarsi e rifiorire del vivente non sarebbe possibile senza le forze sprigionate da questo momento così detestabile. È la decomposizione, con il suo rendere tutto così sgradevole e irriconoscibile, che crea le condizioni per quello che viene spesso chiamato, con una espressione stucchevole, il “miracolo della vita”.
La lenta e ignominiosa decadenza dei corpi è trasposta in chiave estetica nell’opera di Paolo Gioli. Diventa decomposizione dell’immagine.
Le immagini su pellicola, risultato dell’azione di acidi e agenti chimici, appaiono corrose e logorate dal loro stesso principio vivificante. Lo sguardo, stordito dalle esalazioni tossiche che ne risultano, è a un tempo respinto e attratto dalla evanescente acredine dei lavori di Paolo Gioli.
La ricerca di una immagine scomoda e destabilizzante, sull’orlo del collasso, che stenta ad affermarsi, i cui contorni sono sul punto di svanire, passa anche per la ricerca dello strumento adeguato per realizzarla. Il mezzo fotografico privato pezzo per pezzo di ogni suo elemento, è anch’esso soggetto all’accelerato processo di decomposizione imposto dall’artista alla sua opera.
Paolo Gioli rinuncia alla rassicurante efficienza della macchina fotografica e si affida ad un metodo arcaico e rudimentale, la stenoscopia.
Tutto quello che ha un minimo di spessore, che ha al suo interno un vuoto, uno spazio, che permette l’ingresso di una infiltrazione di luce, tutto quello che può incamerare luce, può produrre immagini.
Tubi di cartone, confezioni di lucidi per scarpe, foglie, vengono utilizzati per catturare la luce e realizzare film e immagini fotografiche.
Il processo di rarefazione tecnica viene estremizzato e portato al suo grado zero nel Pugno stenopeico. Il mezzo tecnico viene dissolto e riassorbito dalla mano dell’artista.