Il trasloco del Whitney Museum, dalla sua sede storica dell’Upper East Side di New York fino al Meatpacking District, porta la firma dell’architetto italiano Renzo Piano.
L’archistar genovese, non estraneo a grandi progetti per importanti spazi espositivi, si è confrontato con la storica sede del Whitney Museum, progettata dall’architetto ungherese Marcel Breuer.
Ciò che è emerso, dopo anni di lavori, il ventitré aprile scorso, è una struttura apparentemente sgraziata, spigolosa, ma che incarna un nuovo, rivoluzionario concetto di museo.
La differenza sostanziale, sia con il monolite in mattoni di Marcel Breuer sia con altri musei contemporanei è che il Whitney Museum di Renzo Piano si inserisce nel contesto per il quale è stato progettato e con il quale, attraverso le sue geometrie, cerca di instaurare un nuovo dialogo.
Il museo, infatti, non vuole più coinvolgere la società e lo spazio urbano esclusivamente per le iniziative promosse, ma vuole che il coinvolgimento inizi dalla forma architettonica stessa.
I musei non devono intimidire la gente ma piuttosto avvicinarla ed incuriosirla all’arte
Tale necessità, espressa dal progettista in prima persona, si trasforma in chiare scelte compositive che hanno portato ad un involucro esterno apparentemente privo di grazia o tagliente, ma che comunque persegue un obiettivo dichiarato.
In quest’ottica, l’ingresso principale sfrutta l’ultimo tratto dell’High Line, il giardino pensile lineare, che si srotola lungo il tracciato dismesso della vecchia ferrovia cittadina.
Tale accorgimento, unito alla facciata completamente vetrata, permette di percepire il Museo come una necessaria continuazione urbana del parco, con il quale si mescola fin tanto da disperdere i confini tra natura e arte.
Il rapporto interno-esterno coinvolge il Museo in tutta la sua altezza, tanto che le facciate laterali sono animate da tre terrazze aggettanti, veri prolungamenti delle sale espositive verso il contesto urbano.
L’arte viene forzata ad uscire, a mischiarsi con l’ambiente, così come il visitatore è forzato ad immergersi nella città grazie alle ampie superfici vetrate che si aprono sul fiume Hudson e sui giardini.
Ma è sul piano strada che l’edificio si rende il più permeabile possibile.
I flussi urbani entrano prepotentemente nella dimensione compositiva e ne modificano l’aspetto architettonico, attraverso una piazza. Questo elemento urbanistico, quasi scontato per il nostro background culturale italiano, modifica completamente la linearità del tracciato viario newyorchese.
Una piazza, così come l’abbiamo conosciuta nel progetto del Beaubourg, diventa immediatamente un centro di aggregazione e un architetto italiano ne è consapevole tanto più che Piano, giocando con questo espediente, ne cinge il perimetro con superfici trasparenti.
Chi passeggia si troverà suo “malgrado” a sperimentare la dimensione pubblica di questo museo.
Il risultato è che il Whitney Museum è ancora Il Whitney Museum, ma vestito con abito differente e nonostante all’interno traspaiano lievi i segni di un’eredità importante come quella di Breuer, il Museo ha dato vita ad un nuovo filone di indagine su cui la museografia internazionale dovrà riflettere.