Architetto, educatore, critico, tra i leader del design e dell’arte contemporanea, Juhani Pallasmaa è stato produttore di vari masterpiece di urban design, building design, oltre a vari scritti che in 40 anni hanno coperto ogni tipo di ambito disciplinare, dalle visual arts, all’environmental psychology e cultural philosophy.
Artwort lo ha intervistato a Lubiana, dopo una delle sue numerose lezioni nelle varie università del mondo.
Il suo lavoro sembra vacillare tra l’ingannevolmente semplice e l’incredibilmente complesso: pensa di unire questi due opposti?
Siamo soliti pensare alla semplicità ed alla complessità come polari ed esclusivamente opposti. Quando parliamo di fenomeni in logica, questi possono essere accettabili, ma le nostre vite mentali e l’immaginazione ottica non seguono le regole della razionalità. Secondo me non sono degli opposti, ma aspetti dello stesso fenomeno. Ogni volta che scrivo, tutto arriva in modo molto semplice ed automatico, la mia mano segue i pensieri, frase dopo frase, inconsciamente costruisco qualcosa di complesso da pochi semplici pensieri.
Nel suo libro “The thinking hand”, lei descrive come tutti i tipi di artisti dipendano da questa unione tra capacità mentali e manuali, ha mostrato come una matita nella mano di un artista o di un architetto diventi il ponte tra la mente immaginaria e l’immagine emergente. Dal virtuale al visuale, dalla mente al corpo, dalla semplicità alla complessità: nessuno di questo può esistere senza l’altro. Tutto ciò non rischia di essere caotico?
Paradossalmente la nozione di semplicità è comunemente usata sia in senso dispregiativo che in riconoscimento di una qualità. Anche la nozione di complessità ha questa essenza: implica sia qualcosa di caotico ed irrisolto, sia un’unità sintetica o ancora uno spazio multisfaccettato di un fenomeno. Alvar Aalto, il maestro finlandese, sosteneva che solo attraverso i significati ottenuti dall’unione degli opposti un lavoro artistico può raggiungere il suo senso, a prescindere dal nostro intento. In ogni caso gli opposti devono essere riconciliati. Ogni progetto di design implica decine, spesso centinaia, a volte migliaia di elementi contraddittori, che sono uniti in un’armonia funzionale dettata dal volere dell’uomo. Questa armonia non può essere raggiunta attraverso nessun altro significato se non quello dell’arte.
A mio avviso la forma aristica dell’architettura appartiene ad una categoria “impura” o “disordinata”, dato che contiene e fonde ingredienti conflittuali e categorie inconciliabili, come la materialità e i sentimenti, costruzione ed estetica, fatti fisici e credenze, conoscenze e sogni, passato e futuro, infatti è difficile immaginare qualcosa di più complesso ed internamente più conflittuale dell’architettura.
Quindi lei come Aalto pensa che questo caos artistico sia forzato da un’armonia funzionale?
Sì, un ordine di fattori, aspetti, requisiti e preoccupazioni non correlati e conflittuali che possono essere portati in una sintesi – o in armonia, per usare la nozione di Aalto – solo attraverso un processo creativo basato su un’identificazione mentale profonda, metafore che prendono corpo e la fusione di dubbi, emozioni, giudizi, intuizioni, sentimenti, credenze e desideri.
Se unire gli elementi conflittuali è il compito degli architetti, qual è il fine dell’architettura?
Ha anch’essa un duplice compito di mediazione e riconciliazione: fonde una moltitudine di dimensioni in un’entità sperimentale e strutturata e serve come una fusione essenziale del mondo e sé stessa. In questa fusione scopriamo il miracolo dell’imagine poetica e dell’immaginazione. I progetti e le proposte architettoniche vivono come metafore spaziali che hanno forte impatto sulle pre-riflessioni ed il livello inconscio.
Quando parla di immaginazione e metafore spaziali, penso che lei si opponga all’idea di Frank Stella “What you see is what you see”. Giusto?
Assolutamente sì! Nel fenomeno dell’arte ciò che esperisci non è mai ciò che effettivamente vedi. Un lavoro profondo apre un ampio campo di immagini, significati, associazioni, ricordi ed intuizioni. Alla luce di recenti studi neurologici, il processo di “seeing” è molto più complesso di quanto si sia sostenuto in passato; il processo della percezione fonde sempre l’osservazione, la memoria e l’immaginazione, ed è di per sé un atto creativo.
I suoi pensieri sul “seeing” ricordano i lavori spaziali dell’artista americano Fred Sandback che semplifica il gioco percettivo di un’immagine estremamente semplice ed un’esperienza inaspettatamente complessa e sensorialmente sottile.
Sì, conosco i suoi lavori. Nella loro essenza materiale sono tanto minimali quanto solo un lavoro artistico può essere, solo poche line dritte nello spazio. Possono essere considerati minimali, ma l’arista non ama l’etichetta e preferisce chiamare i suoi prodotti “sculture” o “costruzioni”. La nozione del minimalismo è problematica giacché solitamente la caratterizzazione è basata su una scarsa comprensione formale del lavoro, o un processo di semplificazione formale come preconcezione stilistica. Sandback definisce i suoi lavori “Simple facts” capaci di attivare processi cognitivi e percettivi nella mente dell’osservatore nonostante l’affermazione delle sue intenzioni.
Quindi può affermare che i suoi lavori offrono una complessità nascosta?
Esattamente, si erge dai nostri meccanismi percettivi, “the gestalt power of geometry” e la convenzione del leggere la spazialità in un disegno. D’altro canto cerchiamo costantemente di dare significato alle cose, perché l’atto di “dare un significato” è insito nel nostro sistema percettivo.
L’arte quindi fa da sintesi e l’idea ultima dell’arte stessa è fondere la complessità delle esperienze umane in un’immagine singola o in un motivo. L’unità e l’unicità dei dipinti consistono in un singolo elemento lineare contro lo sfondo o un singolo colore. Non ci sono elementi in questi lavori, solo la loro semplicità. Tutto ciò rappresenta “Simplicity of complexity“?
Questi lavori derivano dalla loro ricchezza, dalla loro enigmatica natura, sono inesauribili generatori di domande e sentimenti. L’incontro con un lavoro artistico non è semplicemente guardare al significato del lavoro. Il processo è un’intereazione complessa ed uno scambio tra il lavoro e la mente della persona che lo esperisce. Gli ingredienti della memoria di ognuno sono come significati archetipici e i sentimenti entrano nei processi di incontro tra i diversi livelli del lavoro, e allo stesso tempo il lavoro svela i livelli della mente che percepisce. La difficoltà di determinare qualcosa di semplice o complesso in un lavoro artistico nasce dal fatto che ogni dipinto, poema, pezzo musicale o spazio architettonico, esiste simultaneamente in due regni: prima come un fenomeno materiale nel mondo fisico, e dopo come un’immagine mentale dell’unica esperienza individuale. Per esempio The black square di Malevich è solamente una figura geometrica in nero su uno sfondo bianco, eseguita dal pennello del pittore. Tuttavia, la superficie dipinta, crepata dal tempo, dà al dipinto un senso di unicità ed autenticità, realtà ed età, dietro la sua essenza geometrica, come un’autorità iconica e splendida. L’opera è in dialogo con i lavori artistici precedenti la sua creazione, così come con quelli che le succederanno. Le immagini mentali che suscita sono composte allo stesso tempo da numerosi elementi che connettono il tutto a campi esistenziali, filosofici, metafisici, religiosi e simbolici. L’immaginazione dell’osservatore e l’autonoma ricerca di significato segnano un interminabile processo di associazione ed interpretazione in movimento. Un profondo lavoro, che sia artistico o architettonico, è sempre uno sterminato orizzonte mentale. Privo della suggestività enigmatica dell’immagine poetica, un quadrato rimane una figura geometrica senza vita, senza significati profondi e la capacità di evocare emozioni. Una semplicità architettonica profonda condensa immagini e significati in maniera simile. La geometria delle costruzioni architettoniche e degli spazi si trasforma in “spational mandalas“, dispositivi che mediano tra il cosmo, il mondo e sé stessi. Anche in architettura la semplicità formale, priva di intenzione poetica e ricchezza di sentimenti, risulta allo stesso modo.
Per concludere, cosa pensa succederà all’arte ed all’architettura se diventeranno più riduttive? Scompariranno lentamente?
Costantin Brancosi una volta disse: “Simplicity is not an end, in art, but we usually arrive at simplicity as we approach the true sense of things“. Secondo me la vera semplificazione è il processo di conversazione nell’arte. Devo ammettere di essere molto pessimista circa la cultura occidentale e molto ottimista circa i compiti dell’arte, del suo vero valore, la trovo profondamente connessa con la vita umana. L’arte sarà qui sino a quando ci sarà vita.