Elena Guidolin è una illustratrice in grado di assumere uno sguardo molto ampio sui fatti dell’umano. L’abbiamo incontrata e abbiamo deciso di farle qualche domanda.
La prima volta che mi sono imbattuto in una tua illustrazione, rappresentava una donna nuda con un corpo esile ma potente come quello di una ninfa. Chi è quella donna, Elena?
Quella persona che osserva senza essere vista, guarda tutto, è curiosa di tutto, la maschera che vorrei essere. Osservante, (che essere osservata già è già un’altra storia) ma partecipe, in qualche modo.
Adesso questa donna arriva in America, precisamente a New York dove sarà esposta dal 21 luglio al 15 agosto presso la Society Of Illustrators Comic and Cartoon Annual. Come è successo, hai vinto un bando?
Più che altro sono stata selezionata. Era una call. Ho inviato i lavori e mi hanno selezionata.
In un mondo in cui si usano sempre meno parole e sempre più immagini, le storie illustrate, secondo te, potrebbero essere il futuro della letteratura, visto che anche zerocalcare è stato candidato ad un premio tipicamente letterario come lo Strega?
Anche il fumetto è letteratura, perché il suo fine è quello di narrare una storia, che sia fiction o non-fiction, breve o lunghissima, seria, seriosa, ecc. Detto ciò, il fumetto come medium mantiene una propria specificità, che è data proprio dalla compenetrazione di immagine e parola. Il fumetto è anche parola, è soprattutto – anzi – un lavoro di scrittura, prima che di disegno.
Poi le cose si mischiano. La scrittura diventa disegno, e viceversa. Non credo quindi che “il fumetto sostituirà la letteratura”. Si sta parlando di media diversi, ognuno con le proprie specificità. Che poi letteratura è un campo amplissimo, quando dico letteratura mi riferisco alla “parola.”
Nelle tue illustrazioni compaiono spesso figure femminili, alcune di loro ti somigliano, hanno la tua stessa magrezza e il tuo stesso candore. Quanto c’è della tua vicenda personale nelle storie che racconti?
È vero, tendo spesso a disegnare figure femminili. Sicuramente nelle mie illustrazioni c’è una parte della mia storia – o delle mie storie. Il corpo (soprattutto femminile) e le sue manifestazioni, in primo luogo come carne, mi interessa. Bufalino diceva: “Esplorare quell’umido sepolcro di carne.”
Considerare il corpo “Come carne” significa prenderlo come entità desoggettivata o senza identità specifica?
Forse sì. Eccedente, che c’è e non c’è, indicibile. Si nasconde – anche la carne – nel momento in cui si mostra.
Questa tua ultima risposta mi ha fatto venire in mente alcune considerazioni morali. Se la carne si svincola dalla presa dalla parola, eccedendo il limite del dicibile, non corriamo il rischio di entrare in una dimensione morale che sia al di là del bene e del male, essendo che l’uomo è tale in quanto in grado di superare la natura della sua fisiologia mediante la costruzione linguistica delle idee di bene e di male?
Sì, ed è proprio per questo che la carne ha bisogno di quella costruzione linguistica.
Costruzione linguistica che poi diventa retorica. Ma anche l’al di là del bene e del male è linguistico. Già la carne è scomparsa.
Nel tuo ultimo lavoro, Ville tristi, emergono le contraddizioni di una legge che non riesce a descrivere i limiti all’interno dei quali un’azione può essere ancora considerata umana. La tortura riduce ad oggetto la vittima e a bestia l’aguzzino. Com’è possibile che in Italia non ci sia ancora il reato di tortura? E come si fa a decidere quale sia la soglia tra l’umano e il disumano?
Il problema è che la tortura, come pratica, si inscrive e si è inscritta, da un lato, su un orizzonte politico come parte necessaria di una strategia più ampia: in questo senso mi viene in mente un film che mi ha fatto molto pensare, Zero Dark Thirty. Lì c’entra molto la retorica dello scontro di civiltà, sommamente ambigua, così come ambigua è, però, la figura dell’aguzzino, del boia. Finisce che ti ritrovi sommamente ambiguo anche tu. Dall’altro lato, credo che i fatti accaduti nelle Ville Tristi che danno il titolo alla storia e, allargando il campo, a Genova durante il G8, siano frutto di questa retorica, ma, in più, introducano l’elemento della “festa”, della sospensione totale dello stato di diritto, fine a se stessa. La sempre mancata introduzione del reato di tortura in Italia risponde a ciò che, e l’ho pensato anche scorrendo gli atti processuali dell’amnistia Togliatti dei quali puoi leggere degli stralci in Ville Tristi, può essere una sorta di “debolezza” di pensiero, di pensiero politico.