Marcantonio Lunardi indaga con la sua macchina da presa brevi istanti di una quotidianità devastata dall’alienazione tecnologica e dall’aridità culturale. Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Lo sguardo penetrante della tua macchina da presa sembra tendere a un punto che è al di là delle immagini stesse. Puoi descriverciquesto tuo particolare approccio?
La sensazione che si genera nel vedere le mie opere potrebbe derivare dal fatto che le immagini, per me, sono solo il punto di partenza per arrivare a significare altro. L’immagine non è il fine della mia rappresentazione ma uno strumento per scavalcare lo schermo accedendo a una dimensione che non è fisicamente rappresentabile ma solo suggeribile. Il finale di 370 new world è un esempio di questo modo di procedere. Quando stavo chiudendo il film cercavo una metafora che rendesse visibile uno stato d’animo. A me quel particolare sentimento di sospensione tra disperazione e speranza, lotta e resa, era assolutamente chiaro. Il problema era come comunicarlo agli spettatori. Non mi basta di comunicarlo in modo pedissequo e formale, volevo dar vita a una immagine potente che evocasse quel sentimento andando a sollecitare le corde emotive più profonde e bypassando la razionalità. Se avessi voluto fare una rappresentazione puramente didascalica o puramente estetica il tutto sarebbe stato molto più semplice. Prima di arrivare a quella sintesi che io sentivo come giusta, ho provato diverse soluzioni ma nessuna di esse funzionava. Erano tutte semanticamente valide o esteticamente ricercate ma in nessuna si raggiungeva quel livello di sintesi estrema che io desideravo. Quando si lavora per metafore e simboli occorre evitare qualsiasi ridondanza: lo spostamento millesimale di un elemento può implicare la banalizzazione di un intero costrutto concettuale. Alla fine mi sono concentrato sugli ossimori e ho giocato con la risemantizzazione dell’ambiente. Quella struttura industriale abbandonata che si vede nel finale è un mulino che fino agli anni ottanta rappresentava una delle più grandi realtà produttive d’Europa. Ora aveva perso ogni significato. L’intuizione è partita dall’immagine del parcheggio vuoto, coperto di asfalto, totalmente sterile, incapace di far germinare alcunché. Ed ecco allora il cortocircuito ottenuto per associazione di idee: la distesa di asfalto davanti al monolite inerte del mulino diventa un luogo per seminare. È un’immagine paradossale, impossibile, irrazionale, contradditoria e proprio in questo sta la sua carica visionaria. 370 è il civico del mulino, il luogo dove comincia e dove finisce ogni cosa. E forse ricomincia di nuovo ma a deciderlo tocca soltanto allo spettatore.
La lentezza è decisamente un tratto distintivo della tua opera. Come mai questa scelta in un periodo storico in cui velocità e accelerazione sembrano essere diventati valori imprescindibili.
I miei film hanno un ritmo preciso: non faccio altro che amplificare quel ritmo all’esasperazione per esaltare quanto più possibile il gesto.I miei attori sono immobili o compiono azioni minime. Questo accade perché il movimentosi sposta su un piano di percezione differente. Esso si compie interamente solo nella corrispondenza emotiva della persona che osserva. Il movimento che si svolge nei miei tableaux è quello delle emozioni spesso violente da cui scaturiscono le immagini che ricreo. Queste emozioni per essere espresse devono creare risonanza. Quanto più fortisono la rabbia, il dolore e il disincanto tanto più l’immagine viene concentrata in gesti precisi e lenti. È una specie di osservazione entomologica della mia stessa fenomenologia interiore. Questo modo di mettere in scena deriva dall’esigenza di controllare l’urgenzaemotiva in un rigore formale sempre più nitido. Quando decido che una mano impugni un oggetto questo semplice atto deve essere ben decodificabile all’osservatore. Guardando quello che accade nel film si deve avere il tempo anche per sentire l’azione.Non è solo questione di comprendere il movimento ma anche di valutare l’effetto che provoca la sua percezione nella propria mente. In altre parole non metto in gioco solo il mio panorama immaginario ma chiamo chi osserva a partecipare a quel gioco mettendo in campo il suo panorama riflesso. Questo equilibrio si può realizzare solo nella lentezza e nella minimalità.
I personaggi ripresi nei tuoi video sono quasi sempre isolati ed estranei al contesto in cui si trovano. È un modo per creare un connessione più stringente con lo spettatore o c’è anche un preciso intento di rappresentare una specificacondizione umana?
Hai centrato il punto. Le mie figure umane diventano espressione di un’emozione. I tableaux che realizzo è come se fossero degli acquari. In un acquarioi pesci hanno tutti unapropriaspecificità e ciascuno è unico per ruolo e aspetto. Allo stesso modo i film che realizzo formano un ambiente denso e al tempo stesso trasparente in cui trovano spazio le figure umane.Le mie figure sono sempre isolate: anche nel caso di gruppi, io non li considero una pluralità d’individui ma corpi sociali unici. E di fatto rappresento sempre solitudini. I miei personaggi,che per ora non interagiscono reciprocamente,incarnanosé stessi come se fossero congelati in un singolo istante della loro vita. Un istante contenente l’essenza di ciò che essi sono, sono stati e che saranno. Un istante che funziona come una sorta di alephborghesiano: il luogo in cui si concentrano tutte le parti di un tutto senza confusione. Mi chiedi se è un modo per creare una connessione con lo spettatore. Non so se risponderti di sìo di no perché quello che metto inscena è lo spettatore stesso che non fa altro che vedersi riflesso in ciò che rappresento. Può riconoscervisi oppure no: questo dipende da tanti fattori che non è soltanto l’artista a decidere. Ma per quello che riguarda il mio modo di concepire l’opera non faccio altro che stabilire una risonanza tra me stesso, il pubblico e i miei fantasmi interioriattraverso quello che rappresento. Cerco di parlare all’uomo dell’uomo. Cerco di far riconoscere l’uomo a sé stesso in tutta la sua bellezza e complessità. Cerco di creare un movimento all’interno di quella stessa condizione umana che anch’io condivo.
Il silenzio dei tuoi personaggi sembra essergli stato imposto. Perché questa rinuncia totale al linguaggio?
In realtà il silenzio dei miei personaggi non è imposto: è un’istantanea della loro condizione emozionale che non richiede alcuna espressione verbale. Qualsiasi verbalizzazione implica un’insopprimibile componente didascalica. E la didascalia è il contrario della sintesi, della concentrazione, dell’essenzialità che io cerco. La verbalizzazione è un processo che in qualche modo va a interagire e perfino a inquinare lacomunicazione intuitiva che si stabilisce tra il mio panorama interiore e quello di chi guarda. Come quando in un rapporto consolidato la parola diventa superflua rispetto allo sguardo. Il vero problema è che io non ho un rapporto consolidato con chi guarda le mie opere cosicché sono costretto a esprimermi per simboli e suggestioni. In questo approccio c’è una forte componente di fiducia: nelle mie opere espongo la parte più vulnerabiledi me stesso. La espongono così com’è, senza didascalia, senza spiegazione. E spero che dall’altra parte ci sia qualcuno che abbia voglia di coglierla così com’è, in tutte le sue contraddizioni. Forse, l’assenza di linguaggio è proprio questo: la sintesi estrema delle mie contraddizioni che diventa un ponte lanciato verso un osservatore sconosciuto.
Il tuo ultimo progetto, Antropometry, indaga uno dei temi centrali a tutto il dibattito culturale e la produzione artistica occidentali degli ultimi cento anni: quello della spersonalizzazione dell’individuo. Come pensi di articolare un tema così complesso?
Partiamo dal titolo. Il titolo del mio progetto richiama apertamente Yves Klein. Quello che trovo interessante delle sue antropometrie è il fatto che riproducono il canone delle proporzioni umane. Ma se in quel caso si trattava di un guizzo di energia vitale, l’antropometria a cui ho dato forma è esattamente agli antipodi. L’intuizione fondante del mio lavoro è l’immagine della misurazione del corpo umano come allusione alle procedure di tipizzazione degli individui nell’ambito dell’eugenetica nazista. Quell’immagine è il punto di sintesi di una riflessione che porto avanti da anni. Nella mia ricerca sono confluitii racconti di alcuni perseguitati che ho documentato, le conoscenze dell’antropometria nazista elo studio delle tecniche d’interrogatorio i cui manuali furono desecretati solo alla fine degli anni ’90. Il Kubark Counter intelligence Interrogation del 1963 è forse il più noto e ha una sezione che tratta di come gestire le minacce, la paura, il dolore e la debolezza. Il comune denominatore delle diverse esperienze che ho messo a contatto è proprio quello della spersonalizzazione. Più andavo avanti nella mia ricerca, più mi rendevo conto di quanto fosse asettico e burocratizzato ciò che le persone comuni considerano puro abominio. Questa consapevolezza scuoteva a tal punto le mie sicurezze che ho avuto bisogno di esorcizzarla.In un’edizione del 1983 del manuale Kurbak si trova un commento a margine che dice: “ricordarsi di voltare pagina qui”. È la normalizzazione dell’indifferenza elevata a sistema. Non si tratta mai di scene cruente o di descrizioni efferate. Il manuale del 1954 spiega che per simulare un’uccisione irrazionale, l’arma va recuperata nella stessa stanza in cui si trova la vittima. La più gelida razionalità simula la vita per controllarla. Tutto si limita a questo: la tortura e l’uccisione sonoridotti a pureprocedure. La vita umana non ha valore in sé ma è funzionale all’ottenimento di uno scopo. Il Kurbak è stato alla base dell’Human Resource Exploitation Training Manual, di venti anni successivo che ebbe sette edizioni diverse. Questo ci porta letteralmente alla soglia della contemporaneitàe adessoquei rapporti si possono leggere tranquillante su internet grazie a strutture come il National Security Archive curato dalla George Washington University. Tutto questo ha a che fare con l’arte nel senso che ho usato l’arte per dare una rappresentazione plastica al senso di alienazione che provo. L’esistenza di una degenerazione tumorale della società che si regge sull’ossessione burocratica è una consapevolezza asfissiante. Pur avendo presenti i temi della massificazione prodotta dall’industria culturale, della spersonalizzazione dell’arte e dell’artista, mi sono misurato soprattutto con una prospettiva antropologica. Per dirla con Hannah Arendt, un po’ per caso e un po’ per necessità ho incontrato la banalità del male nella sua espressione formale. Il mio non è un progetto di natura politica,se non in senso lato, lo considero piuttosto una riflessione in formaplastica dove confluiscono emotività, etica e razionalità. Eichmann, durante il processo, disse che non si sarebbe sentito la coscienza al posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato con zelo e cronometrica precisione. La stessa cronometrica precisione che regola l’antropometria. L’intero progetto,comprendente cinque libri d’artista in codice binario, un’installazione urbana in realtà aumentata e il video Anthropometry 154855, sarà presentato a Pisa il 5 settembre 2015 in occasione dell’inaugurazione della mia personale realizzata con la curatela di Alessandra Ioalé e ospitata dalla galleria Passaggi di Silvana Vassallo.