L’apparenza a volte inganna e la mostra La Grande Madre, ospitata a Palazzo Reale a Milano fino al 15 novembre 2015, ne è la prova. Il titolo della mostra è preso in prestito dal libro omonimo dedicato allo studio dell’archetipo della “Grande Madre” dello psicologo Erich Neumann che sottolinea il carattere enciclopedico della ricerca iconografica e del tema scelto da Fondazione Trussardi e dal suo curatore Massimiliano Gioni. Ma il titolo inganna. Inganna perché evoca una figura femminile dolce e rassicurante, perché l’aggettivo suggerisce una visione della madre come sovrana forza creatrice dell’universo in quanto unica fonte di vita.
La mostra è in realtà un percorso di liberazione dal destino della donna ridotto sempre e soltanto al ruolo di madre. È il racconto dello scontro fra tradizione ed emancipazione dall’istituzione della maternità e dalla famiglia come lente di ingrandimento sulle grandi trasformazioni sociali che ruotano attorno alla figura femminile dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Da incubatrice biologicamente destinata alla maternità di inizio secolo, la donna fa del proprio corpo un “campo di battaglia” al fine di rivendicare il proprio potere e la propria autonomia rispetto ad una società fortemente patriarcale che rinnega alla donna la propria libertà.
“L’utero è mio e lo gestisco io” era il grido delle attiviste del Movimento Femminista degli anni Sessanta. Ma ancor prima, negli anni della Grande Guerra, le Suffragette hanno il merito di definire una nuova tipologia di donna che non si identifica più in una sola sfera, cioè quella domestica. Sono gli anni in cui, superato il maschilismo freudiano che considera la donna come un “continente nero”, le donne si fanno portavoce di un rinnovamento sociale e artistico con le prime avanguardie. Dal Manifesto della donna Futurista di Valentine de Saint-Point, prima donna ad entrare nel movimento fondato da Filippo Tommaso Marinetti che aveva basato il Futurismo sul “disprezzo della donna”; a Benedetta, moglie di Marinetti, che in segno di provocazione disegna la Psicologia di un uomo con al centro un cerchio vuoto circondato dalla vacuità dei valori di cui si accerchiavano gli uomini. Queste alcune delle opere inedite raccolte nella mostra insieme ai collage della dadaista Hannah Hoch che in Il padre mostra una donna dalle mille sfaccettature con la testa di un uomo, il cuore di una madre e le gambe di una femme fatale mentre un pugile si accinge a colpire il figlio. La new woman rinnega la maternità come Meret Oppenheim, l’artista surrealista di Colazione in pelliccia che in Immagine Votiva si identifica nella figura di un angelo intento a strangolare un bambino. Le artiste donne sono la chiave di volta per comprendere la lotta interiore fra il loro desiderio di avere una vita professionale e sessuale appagante e il desiderio o l’imposizione di avere una famiglia; fino al ribaltamento della visione della donna suggerita dagli artisti uomini che la raffigurano come una macchina sessuale. Si potranno ammirare opere come Fontana di Marcel Duchamp, ribattezzata la “Madonna del bagno” per via delle linee sinuose dell’orinatoio che evocano provocatoriamente quelle del velo della Vergine; a L’enigma d’Isidore Ducasse di Man Ray che proclama il fascino erotico degli oggetti e degli incontri fortuiti.
La Balloon Venus dell’artista new pop Jeff Koons e l’installazione di Nari Ward interrompono il percorso cronologico a favore di quello tematico. Dalla svolta femminista alla legislazione sull’aborto il parricidio diviene tema ricorrente nell’arte di fine Novecento e ogni forma di autorità viene rinnegata. La divisione del lavoro e dei ruoli sessuali viene messa sotto attacco da artiste quali Louise Bourgeois, Sarah Lucas, Lynda Benglis, Yayoi Kusama, Carolee Scheeman, Ida Applebroog, Kiki Smith e molte altre. Molte artiste si impossessano degli stereotipi sessuali femminili per rivendicare la propria libertà di espressione. I contenuti di matrice sessuale dominano le sale della seconda parte della mostra mettendo in discussione la sacralità della figura materna in relazione alla sua eroticità come nell’opera di Dorothy Iannone in cui una donna seduta su un invisibile trono stringe al petto una figura maschile dichiarando “succhia il mio seno, sono la tua bellissima madre”.
La figura della madre diventa perturbante nel raccapricciante video di Nathalie Djurberg It’s the mother che allude a funzioni corporee in cui dei figli cercano di rientrare nell’utero materno. Accanto a questi inquietanti lati oscuri della donna, la mostra chiude con delle opere “positive”: un omaggio alla madre nei video di Andy Warhol e nella fotografia di Gillian Wearing che riscopre i sogni, le delusioni, le aspettative, le sconfitte e le vittorie della madre prima che si sposasse.
Questa mostra è il tentativo non più di illustrare le opere d’arte in un libro come nel “Museo senza pareti” di Andrè Malraux, ma esattamente l’opposto: mostrare le più belle opere raccolte nei libri di storia dell’arte in un Museo che non è più “immaginario”.