I paesaggi muti di Mónica Ortega parlano delle presenze che li hanno animati, dei passi che li hanno percorsi e delle storie che vi si sono incrociate, stratificandosi. Il paesaggio è un prodotto culturale di chi lo abita, una forma collettiva di soggettività secondo il paesaggista Denis Cosgrove: si costituisce tale per mezzo di una condivisione di significati sul territorio, applicati dalla comunità o da viaggiatori di passaggio. Il lavoro della fotografa spagnola investiga le caratteristiche semantiche sparse sul territorio, i segni abbandonati di tracce e piccoli eventi quotidiani passati. L’uomo è assente ma le immagini sottendono e rimandano alla presenza umana e alle modificazioni e interazioni impresse sul territorio, in qualche modo umanizzato da tracce di passaggio o da altre destinate invece a durare. Scheletri solitari di memorie passate si ergono su spazi abbandonati, residui urbani sconnessi e isolati ma ancora capaci di esprimere una personalità dimenticata, o si innalzano su paesaggi desolati e desertici in cui l’azione umana si spoglia di ogni elemento superfluo e rimane essenziale e archetipica, svuotata di funzione ma ancora carica di significato.
Ortega si sofferma dove l’occhio spesso non scorre, appena oltre il consueto, per riscoprire gli spazi del banale e dell’inutile, dell’abbandono e del margine. Anti-cartoline che fissano quello che una volta meritava attenzione, o il momento immediatamente a fianco o successivo a un evento, le immagini fluttuano in una sospensione metafisica in cui però è la presenza naturale a dominare, e il soggetto appare oscillare tra elemento artificiale e contesto circostante. Uno sguardo lucido e disincantato investiga realtà alla deriva, che ancora rimbombano flebili echi di presenze scomparse, di abitanti passeggeri svaniti nel nulla, lasciando dietro di loro solo qualche segno materiale, filtro interpretativo tra il paesaggio e le storie che lo hanno reso tale.