“Uno potrebbe non pensare alla luce come un dato di fatto, ma io lo penso. Ed è, come ho detto, così chiara e aperta e diretta, un’arte come non la troverete mai.”
Dan Flavin, nato in Jamaica, quartiere di classe media del Queens, a New York, ha sempre considerato se stesso più come un “impetuoso massimalista” che come un artista minimalista, così come era stato classificato.
Portato ad utilizzare materiali industriali, forme geometriche semplici e facendo interagire queste con lo spazio circostante in cui esponeva le sue opere e con lo spettatore che le osservava, si può riportare il suo lavoro al pari di quello di altri artisti minimalisti, ma gli effetti e l’enfasi creati con la luce lo dispongono altrettanto fortemente nella corrente artistica della Op art, che si basa proprio sull’esplorazione delle variazioni di colori e di forme in base alle differenze di luci. Flavin, infatti, lavorava con la luce, con l’elettricità. In realtà andava ben oltre quello che gli artisti della Op art creavano, perchè in qualche modo assorbiva i concetti fondamentali e li traduceva in opere tridimensionali, in sculture.
La carriera di Dan Flavin si basa molto anche sul negare molte interpretazioni che sono state fatte sulla sua arte. In primis ha negato che le sue opere di luce fossero delle sculture e che dietro le sue installazioni ci fosse qualche pensiero trascendentale.
“È quello che è, e non è nient’altro”, diceva di ciò che creava, allontanandosi con veemenza da ogni tentativo di affibbiare ai suoi lavori dei simbolismi o delle dimensioni sublimi. Sosteneva che la sua arte consisteva solo nell’utilizzare luci fluorescenti che rispondessero ad una cornice architettonica ben precisa.
Nonostante ciò, il suo modo di pensare all’arte era molto concettuale, per Flavin tutto si traduceva ad un pensiero:
“Mi piace l’arte come pensiero più dell’arte come lavoro. Ho sempre sostenuto questo. È importante per me non sporcarmi le mani. Non perchè sono istintivamente pigro. È una dichiarazione: l’arte è pensiero.”