Vengo a sapere del progetto My house is a Le Corbusier un po’ per caso, come d’altronde spesso capita con le cose più belle. Un’informazione sussurrata, un consiglio che colgo appena dall’amico che me ne parla per la prima volta ma che rimane lì, latente nella mia testa, fino a quando non mi capita, un giorno, di passare davanti al Pavillon de l’Esprit Nouveau. Succede così: camminando in quella zona un po’ triste e un po’ grigia di Bologna dove, all’ombra delle torri di Kenzo Tange, si trova questo piccolo gioiello sfuggito all’oblio, mi ricordo improvvisamente di aver sentito una storia bizzarra. Una storia che racconta di un artista sardo che mangia, dorme, lavora, fa le pulizie, insomma vive in alcuni dei più importanti edifici della storia dell’architettura progettati nientemeno che da Le Corbusier. E non solo, perché per lui l’edificio è soprattutto una finestra attraverso la quale vedere il mondo e le persone che vi abitano ed è quindi “abitazione pellegrina” legata imprescindibilmente al movimento e all’incrocio di geografie e culture diverse.
Il Pavillon de l’Esprit Nouveau a Bologna, lo Studio-Apartment nell’Immeuble Molitor, la Cité de Refuges, il Pavillon Suisse a Parigi, l’Appartement 50 nell’Unité d’Habitation di Marsiglia, la Casa Curutchet a La Plata in Argentina: queste opere sono state abitate, vissute, attraversate da Cristian Chironi ed esse stesse hanno rivissuto grazie alla sua residenza temporanea. Incuriosita da questo progetto, scopro che Cristian utilizza come base per le sue peregrinazioni proprio Bologna. Ben presto lo contatto. Ci diamo appuntamento nel suo studio, che è poi anche il suo appartamento. Scopro che Cristian è un artista vero, di quelli che con l’arte non solo ci campano, ma soprattutto ci vivono. E la storia che mi racconta con il suo iconico accento sardo diventa essa stessa arte, come è poi anche per “My house is a Le Corbusier”, opera work in progress, cantiere d’idee, campo di collaborazioni, ricerca, mostra, occasione didattica, ma soprattutto mesi e mesi di vita di un artista.
Sei originario della Sardegna, luogo, memoria, storia che influisce fortemente anche sul tuo progetto My house is a Le Corbusier. Cosa ti ha portato a Bologna? Come è iniziata la tua attività artistica e che percorso sei riuscito ad individuare?
Bologna è stata importante, in primo luogo, come formazione. Sono cresciuto tra Orani e Ottana, due piccoli paesini di circa 2000/3000 abitanti nel centro della Sardegna. Sono arrivato a Bologna per frequentare quella che ai tempi era una buona Accademia di Belle Arti: in città c’erano un’atmosfera e un’energia particolari: il Link Project, primo centro di produzione culturale indipendente d’Italia, era ancora aperto, c’era un bel passaggio di eventi, nonché di umanità. Insomma, era bello stare a Bologna e, quindi, ci sono restato. Una volta finita l’Accademia, i vari lavori mi hanno portato ad inserirmi in una dimensione sempre più ampia: il lavoro ti porta a volte in Francia, a volte in Belgio, in Germania o fuori dall’Europa; anche se negli ultimi sei mesi forse ho vissuto a Bologna appena un mese e mezzo, ho comunque bisogno di un posto dove tornare, un “campo-base” dove individuare uno studio, appoggiare delle cose. In più, a Bologna riesco comunque a trovare il mio stato d’animo, la giusta concentrazione. Comunque, per rispondere alla tua domanda, ho sempre avuto un approccio multidisciplinare e soprattutto in ambito performativo, oltre che visivo: questi sono i canali che più frequento.
Come nasce il progetto My house is a Le Corbusier?
Tutto nasce da una discussione avvenuta nel 2010 a Orani, nella cucina di Daniele Nivola, figlio di Chischeddu Nivola, che a sua volta è il fratello di Costantino Nivola, artista e scultore originario proprio di Orani. La figura di Chischeddu Nivola è la chiave che permette di capire ed interpretare il mio iniziale interesse per questo progetto. Infatti, Nivola, che viveva ormai lontano dalla Sardegna, a Long Island, conobbe Le Corbusier in un caffè durante un viaggio a New York e a questo primo incontro seguì un invito a pranzo: così, in maniera quasi casuale, nacquero un’amicizia ed un’esperienza collaborativa di fondamentale importanza per entrambi. Costantino, tra il 1963 e il 1965, tornò ad Orani, portando con sé un progetto firmato proprio da Le Corbusier: lo consegnò al fratello Chischeddu Nivola, che era in procinto di fare una casa. Ai tempi però non c’era un’istruzione tale da permettere di leggere e quindi realizzare il progetto di Le Corbusier: nel mio paese non c’era neanche un piano urbanistico. Così il progetto finì accantonato nel cassetto di un comò. Quindi, anni dopo, Costantino tornò da Long Island per vedere com’era stata realizzata la casa e si accorse subito che non corrispondeva al progetto. Chiese al fratello per quale motivo non avesse seguito quelle direttive e lui gli rispose in sardo che la casa di Le Corbusier “Non aveva né porte né finestre e assomigliava più a un tugurio che a una casa”.
Ed è da qui che nasce questo progetto attorno alla figura di Le Corbusier, che comunque ai tempi conoscevo relativamente: da subito ebbi l’istinto di documentare questo primo sviluppo in un video. Anni dopo mi imbattei in un bando della Fondation Le Corbusier, che finanziava dei progetti legati alla figura dell’architetto: io mandai questa storia, sottolineando il fatto che avrei voluto ragionare su alcune problematiche connesse ad un’idea di comunicazione ed interpretazione ed anche ad uno scollamento tra opera e fruitore. Così la Fondation Le Corbusier mi assegnò la borsa prevista nel bando, che io poi investii principalmente dapprima nella mostra all’Esprit Nouveau a Bologna e poi successivamente in quella allo studio-appartamento nell’Immeuble Molitor a Parigi. E da lì… Mi dissero: “Ci sarebbe la possibilità di lavorare anche in un’altra casa di Le Corbusier”. Chiesi quante erano queste case. Erano tante e comunque sparse in quasi tutti i continenti. Così mi venne l’idea di vivere all’interno di queste case, di usarle come osservatorio per capire come gira il mondo attorno, capire qual è l’eredità di Le Corbusier, avere un confronto con culture ed umanità differenti.
In più, il fatto che a livello generazionale è molto difficile avere una casa di proprietà, ha fornito a queste residenze anche un ulteriore significato: avere la libertà di vivere nelle case di Le Corbusier è anche e soprattutto una bella rivincita rispetto al tempo storico che stiamo vivendo.
Com’è vivere in una casa progettata da uno dei più celebri architetti del Modernismo e di tutta la storia dell’architettura? Quali sono le differenze che hai potuto osservare viaggiando tra una casa e l’altra e tra un Paese e l’altro?
Ogni casa è comunque diversa dalle altre: sia per come la vivi in sé, sia perché il paesaggio intorno cambia e ti permette di vivere le cose in maniera differente.
L’Esprit Nouveau è stata la prima residenza: e il primo amore, come è normale che sia, continuo veramente a portarlo nel cuore. All’Esprit Nouveau mi sono sistemato nella cellula tipica di Le Corbusier, dove i casiers dividevano gli spazi, e poi ho trasformato il Diorama nel mio studio.
Una delle cose che ricordo con più piacere è l’ampia finestra nel modulo basso che, oltre a far entrare tantissima luce, metteva in relazione perenne il dentro con il fuori. La natura era sempre in casa ed era molto bello avere questa visione perché l’Esprit Nouveau sorge in un’area sì fieristica, ma comunque verde. E poi…la policromia alle pareti che comunque ti accompagnava nella scansione della giornata, passando da un colore che ti aiutava a concentrarti nel lavoro ad un altro che ti aiutava a dormire. Mi piaceva molto questo uso del colore e trovavo interessante il fatto che la casa trascorresse la giornata con te, cambiasse insieme a te.
Poi, l’Unité d’Habitation, che per me è stata l’esperienza più bella: è difficile da spiegare, ma ho provato una grande affinità con l’Appartamento 50, uno dei pochi originali all’interno dell’Unité, che è di proprietà di Jean-Marc Drut, il quale lo conserva in maniera impeccabile. Come è stato? Anche qui avevo la mia cellula. E stavo da Dio. La particolarità però stava soprattutto nel fatto che mi ritrovavo a vivere in una costruzione gigantesca che ospita circa 1200 persone: più o meno la metà del mio paese in Sardegna poteva vivere lì dentro. Al terzo piano c’è la zona bar, poi ci sono il panettiere e la terrazza dove, quando volevo staccare dal lavoro, salivo a fumare una sigaretta riuscendo comunque a scambiare due chiacchiere con i miei vicini, ad entrare in contatto, a dialogare con le persone che vivono lì in modo sicuramente più permanente rispetto a me. Sulla terrazza ci sono i bambini che fanno il bagno nella piccola piscina quando escono da scuola, c’è chi gira in bicicletta o in triciclo, chi fa le foto, chi si apparta con la sua ragazzetta. Anche in ascensore fai delle chiacchiere con le persone in cui ti imbatti: “Come si chiama il cane?” “Modulor!”. C’è naturalmente la persona riservata, la persona antipatica. Ma comunque, il 31 di dicembre festeggiano tutti insieme sulla terrazza e sentono che fanno parte di una grande famiglia, di una grande dimensione. È una dinamica, un mondo. Ricordo che mi colpì molto una particolarità dell’Unité: i vicini non chiudevano le loro porte ma anzi le lasciavano proprio spalancate. C’era un senso di fiducia verso l’altro, un senso di comunità, un po’ come succede ancora in qualche paesino del Sud o in Sardegna, dove si passano le ore a chiacchierare sulla soglia insieme ai propri vicini. E questo mi fece molto pensare perché proprio il giorno in cui arrivai a Marsiglia ci furono gli attentati di Parigi.
E poi che dirti? L’Unité l’ho trovata davvero un grande transatlantico che ti aiuta a lasciarti andare, a navigare con l’immaginazione. Quando uscivo nel mio terrazzo dell’Appartamento 50, avevo a destra il mare, a sinistra le montagne, davanti a me le colline: quindi, in termini di tempi di luce, avevo il viola a sinistra ed il giallo a destra. E sono dettagli che non vedi spesso in altre abitazioni: infatti, una delle cose che mi manca tantissimo quando ritorno dalle case di Le Corbusier è proprio la luce naturale. Insieme al fatto che posso uscire fuori, stando in casa.
Subito dopo è stata la volta dello studio-appartamento nell’Immeuble Molitor a Parigi, dove il cielo è gonfio, gravido di nuvole. Nell’appartamento, che è al settimo piano, mi capitava di pranzare con queste nuvole che sembravano entrare in casa. E da lì il tramonto aveva veramente dei colori magnifici. Non per niente Le Corbusier rialzò il suo letto in camera: quando ti corichi sei così in alto che hai modo di vedere il parco al di sotto, e il cielo appena sopra, dritto davanti a te. Non hai un desktop davanti, come spesso accade nelle nostre case: lì invece, dove tra l’altro spesso non funzionava nemmeno la connessione, puoi riprenderti una situazione di vita che ti manca, puoi tornare a vivere uno spazio di abitazione completamente in simbiosi con l’architettura. Poi, ricordo con piacere il suo studio di lavoro, anche questo ampio, così come la scalinata che porta alla camera degli ospiti dove dormivo io. Respiravo anche un po’ di Oriente, da cui Le Corbusier prese ispirazione per i disegni ed alcuni particolari del bagno e della scala, e mi piaceva ritrovarmi comunque a viaggiare dentro casa, che è poi un po’ il senso del lavoro: continui ad avere questa dimensione nomade però sei dentro ad una casa, ad una sorta di carapace.
Quindi, dopo due brevi attraversamenti al Pavillon Suisse, all’interno della città universitaria, e alla Cité de Refuge, che ho vissuto in un momento di demolizione, di ristrutturazione, come una grande nave che si stava smontando, ho lasciato Parigi e l’Europa alla volta dell’Argentina.
La mia prima volta in Sud America: qui ho dovuto resettare tutto, ho dovuto tracciare una linea e ricominciare tutto da zero. Ma mi piace ricominciare tutto da capo. L’Argentina non è in una condizione economica positiva e questo si sente, come si sente molto lo scollamento dall’Europa. La Plata è veramente una città giovanissima, ha appena cento anni: il fatto che ci sia una casa di Le Corbusier commissionata dal dottor Curutchet è praticamente un miracolo perché architettonicamente è proprio giovane, è vergine. Però il contatto con l’umanità qui è stato bello, sono stati molto ospitali: c’è stata una generosità condivisa da una parte e dall’altra. Infatti, Casa Curutchet, è stata una delle case più visitate di Le Corbusier durante la mia residenza, complice anche il fatto che è entrata da poco a far parte del patrimonio dell’Unesco: è venuta a trovarmi tantissima gente, tantissimi studenti provenienti da Rosario e da altre città dell’Argentina. La particolarità della casa è che all’interno, oltre all’abitazione, c’è anche la clinica del dottor Curutchet: questo particolare ha sicuramente influito sul progetto. Quindi ho un po’ diversificato questa esperienza rispetto alla precedente residenza, che era quella dell’Unité d’Habitation, dove avevo affrontato un’idea di Mediterraneo, un’idea di attraversamento, un’idea di rimettere quel Transatlantico in mare ed andare a visitare, a toccare altre realtà pur stando fermi. A Casa Curutchet c’è stata, invece, sin da subito l’idea di lavorare con qualcosa di pulito, qualcosa di clinico come usando l’alcool o la varechina, forse perché la casa è veramente bianchissima. Ci sono poi alcuni elementi che si ritrovano sempre nelle abitazioni di Le Corbusier come la cellula base, il modulo originale che rimane lo stesso, e poi, classico, i pilotis che la tengono su, la facciata libera, la luce, l’albero nel mezzo: tutta la casa è costruita intorno all’albero e l’idea del contatto con la natura, con l’esterno è sempre presente, tant’è vero che c’è una passerella che sostituisce le scale e continua la strada dentro casa. La gente veniva, stava due, tre ore, si fermava, beveva il suo mate, chi leggeva. Quando c’era il sole era fantastico stare in terrazzo e così…una bella esperienza.
Qual è il rapporto che instauri con il pubblico durante la residenza?
Dipende dalle diverse situazioni. Ad esempio l’Esprit Nouveau a Bologna è chiuso ed anzi è lasciato veramente in un contesto di degrado in questo momento. Avrebbe bisogno di una maggiore attenzione e valorizzazione da parte del Comune e della Regione che lo ha in comodato gratuito: è l’unica architettura di Le Corbusier, ricostruita da Giuliano Gresleri a Bologna, che appunto si può visitare in Italia ed è un peccato che comunque venga lasciata chiusa e non accessibile al pubblico. Anche tutt’ora mi viene chiesto se è possibile entrare nell’edificio, perché durante la residenza si poteva scrivere alla mia e-mail per prenotare le visite. Ora purtroppo le persone non riescono più a visitare questo luogo splendido, mentre quando ci vivevo io venivano da tutta Italia proprio per vedere il padiglione e poi parallelamente vedevano la mia mostra. Oppure chi veniva per la mia mostra parallelamente visitava il padiglione. L’Esprit Nouveau è stata una piazza aperta quando ci stavo: è entrata tantissima gente e lo spazio ha vissuto. Quindi, lì ero io che accoglievo le persone, le persone chiamavano me per telefono…e così è stato anche allo studio-appartamento di Parigi, a parte il sabato, quando c’era anche il personale della Fondation Le Corbusier. A Marsiglia invece ero completamente da solo: non c’era un altro displayer oltre a me. Ero io che facevo entrare, che aprivo la porta. Bevevamo il caffè insieme, se era ora di cena ti dicevo: “Vuoi restare a mangiare?”. Mangiavo insieme ad una persona che avevo conosciuto solo un’ora prima. E quando non conosci qualcuno si fanno delle domande diverse, ci sono delle riflessioni differenti e a volte le persone si lasciano anche andare, parlano di problematiche legate alla loro casa, alla loro dimensione di vita nella città. È molto interessante perché si scambiano tante cose: è ben diverso dall’avere una mostra all’interno della canonica galleria, dove vai per l’opening, stai lì quelle due ore, bevi il tuo frizzantino, tutto finisce e si torna a casa. No, non è così: My house is a Le Corbusier vuole un altro tipo di approccio.
A Casa Curutchet, invece, c’erano già due persone che accoglievano il pubblico nel front office: ti facevano pagare il biglietto, ti raccontavano la storia della casa e poi ti lasciavano visitare l’edificio. Quindi, lì, visto che è venuta meno la dimensione dell’accoglienza al pubblico ho deciso di essere più un osservatore, sempre con la camera. I visitatori mi vedevano già in casa e si chiedevano: “Chi è questo qua che mangia, che lavora, che fa tutto quello che vuole qui dentro? Chi è?”. Comunque in casa c’erano le proiezioni dei video dello studio-appartamento, dell’Esprit Nouveau: vedevano la stessa persona che viveva in altre case e facevano 1+1, capendo all’istante cosa stava succedendo. Per questo in quel caso mi piaceva molto la dimensione del fantasma, di questo lenzuolo bianco: d’altronde eravamo sempre dentro ad una clinica, ad una dimensione medica. Casa Curutchet in questo senso è stata vissuta proprio con un sentimento diverso rispetto alle altre. Ogni tanto instauravo un dialogo con queste persone: gli dicevo “Io vivo qua” e c’era sempre la sorpresa: “Dove dormi?”, e quindi: “Il materasso è nello spazio del ricovero”, “Ma non fa freddo?”, “Ma l’acqua c’è?”, eccetera, eccetera…
Il bello del progetto è che devi adattarti ad un clima ma allo stesso tempo tu cambi il clima della casa. Nello studio-appartamento a Parigi, ad esempio, normalmente la mattina aprivo le finestre da una parte e le chiudevo al sole dall’altra: la casa ne ha avuto beneficio, si capiva anche solo dalla temperatura interna. A volte fa troppo caldo ed i mobili ne risentono, il legno tende a gonfiarsi, a lasciarsi andare.
Una domanda abbastanza pragmatica. Come si concretizza il tuo lavoro? Il processo creativo varia a seconda della casa in cui ti trovi?
Sicuramente appena arrivato in una nuova residenza, senti il bisogno di prendere confidenza con il posto e quindi, in primo luogo, se ti manca qualcosa devi procurartela. All’Esprit Nouveau non c’era il letto: costruisci il letto. Non c’era la cucina: prendi un fornello elettrico, delle padelle, fai la spesa. Cerchi un attimo di rendere tua la dinamica. Poi, la seconda settimana, comincia già una fase di lavoro in cui fai, produci, in cui la casa ti dà degli input, ma non solo la casa in sé, anche il paesaggio che c’è intorno, la dimensione che respiri. A Marsiglia c’è il mare, le montagne e tutti quei colori ti influiscono tantissimo, cambiano proprio il tuo lavoro. A Parigi, invece, al Molitor era molto più piovoso ed era più fredda anche tutta la socialità intorno al quartiere: le persone sono snob, distanti, e quindi tu interiorizzi, rimani solamente con te stesso ed anche il lavoro comunque ne risente, non in maniera per forza negativa, però rispecchia lo stato d’animo che stai vivendo in quei giorni.
Poi, dopo la prima settimana, il pubblico può iniziare a scriverti o telefonarti. Viene a bere un caffè, si ferma, tu puoi continuare a lavorare, lui può restare, leggere, guardare la casa, andare via dopo cinque minuti, cinque ore. La cosa interessante è che poi solitamente ti dicono: “Io abito qua vicino, perché non vieni a cena da me stasera?”. Quindi tu vai nell’altra casa e c’è questo scambio: il progetto ti porta fuori. E secondo me sono queste le cose più interessanti, quelle che ti restano di più. Negli ultimi giorni infine c’è una dimensione di apertura, mostra, c’è meno il fare, c’è meno il work in progress. Chiudi. Sei arrivato comunque a stabilire una sinergia con la casa e dici: “Ecco, vedo giusto così il mio passaggio”. Continuiamo a bere un caffè insieme. Parallelamente io lavoro al video. Lavoro con l’umanità che trovo lì, con quello che vedo fuori dalla finestra. Com’è il mondo fuori da Casa Curutchet? È uguale o diverso rispetto a Bologna, rispetto a Marsiglia? E come sarà da qui ad otto anni? È proprio un osservatorio. Residenza, osservatorio, studio. A volte ci sono anche dei momenti di workshop: per esempio a Bologna ho tenuto delle lezioni per gli studenti dell’Accademia di Belle Arti mentre a Casa Curutchet ho partecipato ad un workshop in collaborazione con il laboratorio G.A.Y.A., che si occupa di seguire dei ragazzi con diverse patologie, tra cui disturbi mentali ed autismo, con i quali è fantastico lavorare perché hanno un’immaginazione straordinaria e la capacità di formulare associazioni che ti stupiscono ogni volta.
Quale è il tuo rapporto con la figura di Le Corbusier?
Io vivo Le Corbusier come uno strumento: lui mi serve per entrare in determinati canali. Fatto sta che stiamo parlando di un grandissimo artista, un grandissimo architetto, un grandissimo pensatore, un grandissimo intellettuale. A me Le Corbusier diverte, lo trovo anche molto molto ironico. Probabilmente riesco a vederlo sotto quest’ottica perché c’è questa “oranesità” nel dialogo tra me e lui. “Oranesità” vuol dire che io nella sua dimensione di vita ritrovo dei miei compaesani: il fatto che comunque ha diviso un’amicizia, una collaborazione con Costantino Nivola e il fatto che Costantino Nivola gli ha presentato Salvatore Bertocchi che è sempre del mio paese e che ha costruito ad esempio il terrazzo allo studio-appartamento, che ha costruito l’Unité, che ha realizzato la tomba dove sono sepolti Le Corbusier e Yvonne. Quindi ritrovo parte della mia famiglia dentro il suo vissuto: questo mi permette di non viverlo con quell’algidità che magari gli si riconosce e sinceramente non mi interessa neanche.
Qual era l’immagine dell’architettura che avevi prima di iniziare questo progetto?
Il nuraghe.
E quella che hai adesso? Questa esperienza ti ha influenzato nel tuo modo di guardare all’architettura?
Ricordati che non sono un esperto. Però sì, è cambiato moltissimo il mio modo di vedere l’architettura: adesso posso descriverti a occhi chiusi tutti gli spazi delle case che ho vissuto. Perché poi viverci un mese intero…ci sono anche dei momenti di estrema noia e quindi vai in ogni angolo insignificante e cerchi di dargli un significato. Riesci a leggere meglio le cose attorno a te: com’è fatta una casa, perché quella cosa è così. Per esempio un particolare che mi stupì tantissimo all’Unité, nell’Appartamento 50, è che quando sei nella cucina il baricentro del tuo corpo sta fermo e tu devi semplicemente ruotare: hai il lavandino, il fornello e la zona per tagliare, fai semplicemente un movimento in una sorta di coreografia, non ti sposti mai, non fai mai un passo a destra, a sinistra o avanti o indietro…e poi, la padella la metti su perché ci sono tutti gli agganci che ti permettono di farlo, lì puoi prendere i piatti ed appena sotto hai le altre cose. È veramente molto molto facile, no? E quindi diventa piacevole stare in cucina. Questa è una delle particolarità che ti fanno dire “Wow!”: è proprio fare il massimo con il minimo. Utilizzare gli spazi in questo modo…è un grande insegnamento. Poi c’è un’estetica, c’è un’attenzione ai dettagli a dir poco impressionante.
La dimensione temporale, dilatata sul lungo periodo, come d’altronde non può che essere visto che di residenza si parla, caratterizza il progetto: in un mondo sempre più immediato è sicuramente un aspetto molto interessante. Rispetto alla tua esperienza precedente è per te più facile o più complesso muoverti in un tempo dilatato?
È più complicato perché comunque altre volte quando devi fare un progetto, lo finisci ed è chiuso. In questo caso, invece, tutta l’opera avrà senso quando il viaggio stesso sarà ultimato. Poi logicamente tutto ciò è possibile soprattutto grazie alla Fondation Le Corbusier, che mi ha permesso di essere agevolato rispetto a dei contatti e a delle connessioni che hanno creato le condizioni necessarie per compiere le residenze. Il progetto in sé, invece, è totalmente autofinanziato dai collezionisti che acquistano le opere: quindi va avanti grazie a loro ed è una cosa molto bella perché comunque loro stessi hanno capito che si poteva entrare dentro ad un meccanismo che gli permetteva di far parte di un’avventura, piuttosto che ottenere un mero possesso oggettivo. Poi è difficile anche perché se devi andare in Argentina piuttosto che in India da solo e devi trovare delle situazioni di lavoro, non sai dove sei, non sai se con questo materiale ci vivi: insomma è tutto più complicato ma anche avvincente perché ti permette di superare sempre dei limiti. E questa è una cosa che ha sempre caratterizzato il mio lavoro: fare dei propri limiti o dei propri handicap un valore aggiunto, un qualcosa che invece ti apre nuove possibilità.
Quali saranno i prossimi sviluppi del progetto? E, nel frattempo, a che progetti ti dedicherai?
Non è facile trovare una casa di Le Corbusier nell’immediato. Non c’è nulla di stabilito: è tutto un cantiere aperto, i cui lavori continueranno in base alle connessioni del momento, in base alle possibilità, alle tempistiche ed anche all’economia. Mi piacerebbe concretizzare la residenza o in India o in Svizzera, che al momento sono forse le più raggiungibili. Vedremo. Vorrei finire completando le dodici Nazioni. Non mi interessa vivere nelle case di Le Corbusier in uno stesso Paese, altrimenti avrei potuto farne diverse in Francia: ciò che mi interessa è mettermi in confronto culturale con un’altra società, lo scambio, il portar via un bagaglio. E, ad esempio, tornando dall’Argentina ti senti comunque cresciuto per aver visto un pezzo di mondo che prima non conoscevi assolutamente e che ti fa capire, con tutte le sue difficoltà, che sei un privilegiato.
Attualmente, invece, sto lavorando per una mostra alla Quadriennale a Roma a cura di Marta Papini.
Nonostante ciò comporti l’assenza di un’espediente forte come il legame con la tua terra d’origine, hai mai pensato di andare ad abitare nelle opere di altri architetti, oltre a Le Corbusier?
Certo, questo progetto ha avuto inizio da quella discussione: non ho scelto io Le Corbusier, l’ho ereditato piuttosto. Trovo straordinario il fatto che il legame tra un paese di 2000/3000 abitanti al centro della Sardegna e quello che è considerato uno dei più grandi architetti di sempre continui ancora oggi. Il fatto che Costantino Nivola abbia diviso con lui un’amicizia di venti, trent’anni e che Salvatore Bertocchi sia stato un suo collaboratore, pranzandovi insieme, trascorrendo del tempo, scambiando parole, esperienze. Quanti anni sono stati? Sette? Otto? Dieci? Ed io vengo da là, esattamente come loro. Ci saranno altri otto anni: certo, manca la presenza fisica ma c’è comunque sia l’eredità dell’opera. E così questa “oranesità” continua a tornare e spero che ci sia ancora un seguito perché è bello questo rapporto, questo legame. Comunque perché non un altro architetto? Perché no? Non lo escludo.
Mi dice: “Alla fin fine è un viaggio…non c’è nulla di così strano” ma io non posso fare a meno di chiedermi quante persone abbiano la possibilità di vivere in un’opera e quante opere possano essere vissute in maniera così essenziale. Come mi dice Cristian: “Un Rothko lo vivi in un modo emotivo, più immaginario, vi entri dentro a livello spirituale. Ma in un Le Corbusier ci passi lo straccio.”
Per chi fosse incuriosito dal progetto:
Finissage della mostra My house is a Le Corbusier di Cristian Chironi in “Lo Stato delle Cose” a cura di Marta Papini.
Talk con Cristian Chironi, Pippo Ciorra, Silvia Fanti, Marta Papini
16a Quadriennale d’arte, Palazzo delle Esposizioni, Rotonda, via Nazionale, 194, Roma
Domenica 27 novembre 2016, ore 18-20