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Luca Barcellona
Artwort Arte Street Art La spiritualità del segno – Un’intervista a Luca Bercellona
  • Street Art

La spiritualità del segno – Un’intervista a Luca Bercellona

  • 12 Dicembre 2016
  • Artwort

È solo a una prima, superficiale, analisi che la ricerca artistica di Luca Barcellona sembra proiettata verso una pletora di ambiti espressivi che vanno dalla calligrafia al graphic design, dal rap al djing. Non che l’ingegno creativo di quello che è uno dei più noti e influenti visual artist italiani non sia multiforme ma, a guardare bene nella sua biografia, si scopre che c’è una costante fondamentale, un elemento costitutivo intrinseco di tutte le sue traiettorie creative: l’amore viscerale per la scrittura in tutte le sue forme. Un amore che viene declinato in metriche come in performance calligrafiche, in workshop internazionali o nella realizzazione di libri, in commissioni professionali per brand come in ricerche puramente artistiche che indagano un certo concetto di spiritualità attraverso la pratica nel disegno delle lettere. È proprio nell’azione in tempo reale che il ventaglio delle sue esperienza trova forma compiuta e organica perché, da una parte, chiama in causa le competenze specifiche sviluppate in tanti anni di pratica e allenamento quotidiani mentre, dall’altra, costringe l’artista all’azzardo della creazione simultanea e all’improvvisazione. Che avvengano in gallerie o musei, attraverso l’utilizzo di una tavoletta grafica connessa a un proiettore o direttamente sul muro, le performance di Luca Barcellona sono atti meditativi che sublimano la perizia calligrafica attraverso l’improvvisazione di stampo quasi jazzistico. La prossima che lo vedrà protagonista sarà quella inaugurale per l’edizione 2016 di Dimora Luminosa, il progetto di Ied Firenze e Fake Factory che proietta sulla facciata della chiesa di Santo Spirito, a Firenze, le opere selezionate dall’omonimo concorso.
In preparazione di questa occasione abbiamo intervistato Luca Barcellona appena reduce dall’omaggio a John Coltrane tributato nella cornice di Jazz:Re:Found.

È cominciato tutto sui muri. Una tag, i throw up e poi la forma delle lettere… Riportaci indietro a quando eri Bean e, col senno di oggi, raccontaci quanto è stata fondamentale quella esperienza.
La scrittura è stata sempre qualcosa di molto presente nella mia vita. Ha cambiato solo forma ma nulla di quello che ho fatto in passato su muri e treni è stato mai inutile. Si manifesta ancora oggi sopratutto quando si tratta di azione, nelle performance, quando bisogna prendere decisioni all’ultimo minuto e hai un pubblico che è convinto che tu sappia esattamente quello che stai facendo. Tutt’altro! C’è molta improvvisazione e il coraggio di affrontare la tela bianca me lo ha dato di sicuro l’esperienza con il writing.

Lord Bean ci porta invece nel mondo del contenuto delle parole: metriche e liriche, assonanze e rime. Il tuo amore per la parola passa anche da qui? Cosa ti ha portato a ritornare al rap dopo tanti anni di stop?
Certo: è qualcosa di strettamente legato all’utilizzo della parola in senso estetico ma riguarda il suono e il significato. È successo che dal fare la copertina per Night Skinny, per il suo album ‘Zero Kills’, sono finito col registrare ben 3 pezzi nel disco, un po’ perché essendo immerso in quel contesto Luca mi ha fatto tornare voglia di scrivere, e d’altro canto avevo la possibilità di registrare un pezzo coi Colle e con Salmo ed Ensi, oltre a calcare i palchi con gente bravissima come Johnny Marsiglia, tutti personaggi che stimo molto artisticamente. In passato ho mancato per un soffio diverse collaborazioni, e questa volta non volevo pensarci su troppo.
In ogni caso il distacco generazionale con il rap di oggi è sempre più grande e io sento di aver fatto il mio, per quel che potevo. Questa parentesi musicale quindi si è richiusa così come si era aperta. È stato bello così.

Quando e come esplode in te l’amore per la calligrafia? Io ricordo murate intere di Bean con alfabeti calligrafici…
Credo che ci sia stato un momento in cui ho smesso di disegnare lettere, ed ho cominciato a fare solo tag, e poi texture di scrittura, tele con solo firme e testo.
Mi piaceva l’immediatezza dei gesti (come del resto nei throw up, che sono sempre stati una mia gran passione).
E poi non sentivo più il bisogno di scrivere per forza il mio nome, ma testi, anche molto lunghi. Da lì in poi il passo con l’incontro della calligrafia formale è stato breve. Stiamo parlando dell’inizio del 2000, non c’era praticamente nessuno a farlo con me…

Con Rae Martini e Marco Klefisch hai fondato il collettivo Rebel Ink. E forse lì la dimensione performativa è entrata fortemente nella tua ricerca?
Esatto! Quello fu il periodo in cui decisi di fare sul serio con la calligrafia. Anche Marco e Rae volevano cimentarsi in qualcosa di nuovo, che ovviamente non fosse “street art”. Rebel Ink è stata un’esperienza incredibile. Eravamo orgogliosi, nelle performance all’estero, di portare il nostro background italiano con uno spettacolo diverso dagli altri, molto riconoscibile. Poi in quegli anni ci siamo davvero divertiti.
Ho cercato sempre commistioni interessanti con altri ambienti in ambito performativo, ho condiviso il palco di un teatro con Cesare Picco e il suo pianoforte a coda, una delle esperienze più emozionanti per me, e dettato con un pluricampione del mondo di Karate come Dario Marchini. In questi casi ti accorgi di come la calligrafia sia il media con il quale entrare in contatto con universi creativi analoghi al mio, dai quali attingere nuova linfa. Per me la qualità sta nell’esperienza, non nel risultato.

Qual è la dimensione più profonda della calligrafia che ti interessa?
Di sicuro il concetto di spiritualità legato al “lasciare il segno”, il fatto che esisti nel momento in cui scrivi.
Negli ultimi anni ho capito molto sull’essenza del mio lavoro: mi interessa creare valore. Quindi l’insegnamento, la condivisione, il fatto di passare una conoscenza ad altre persone così che questa possa tramandarsi, mi rende molto felice ed ha cambiato completamente il mio atteggiamento verso l’insegnamento e di conseguenza la sua qualità.
La cosa più bella della scrittura, come accade in molte altre discipline simili, è proprio il non avere obiettivi, divertirsi esercitandosi e godersi il percorso.
Non ci sono scorciatoie per arrivare a dei risultati, e si scoprono sempre possibilità nuove, anche in base alla connessione fra forma e strumenti, anche impensabili.
Attraverso il mio lavoro ho girato davvero tutto il mondo, ho insegnato dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada, ed ogni esperienza mi ha permesso di vedere differenti approcci della stessa materia, posti meravigliosi e persone formidabili.

Come ti sei avvicinato al mondo del graphic design e come l’hai coniugato con le altre tue passioni?
Io ho una formazione da grafico, ma non è stata mai la cosa in cui mi sentivo di dare il meglio. Certo che mi fa molto piacere quando riesco a coniugare un lavoro di grafica con la calligrafia, e le due cose sono strettamente legate: tecnicamente parlando, dal momento a cui fai una semplice scansione, all’impaginazione di un design calligrafico, credo non si possa non avere delle conoscenze di grafica.
Poi dal punto di vista artistico e creativo, ci sono grafici che mi hanno molto influenzato per il loro utilizzo della tipografia, come Lubalin o Saul Bass.

Come hai cominciato a lavorare con i brand e come questo ha influito sulla tua ricerca?
Ho iniziato col disegnare grafiche per marchi di abbigliamento. Prima quelli di amici, come Gold o Iuter, poi ho avuto occasione di sperimentare anche con brand più grandi. Mi hanno sempre cercato loro. È stato bello lavorare per realtà diverse come Nike e Fila, Hogan e Zoo York, ma con Carhartt c’è stato il sodalizio più lungo e duraturo: ho disegnato 4 collezioni per loro. Ultimamente ho ridisegnato invece la parte calligrafica di tutti i packaging di Absolut, e la qualità della committenza è stata veramente alta. Un lavoro molto duro ma gratificante. S’impara parecchio sui processi di stampa, di produzione, sui materiali, e francamente anche sul perché giudichiamo meglio o peggio un marchio. Siamo tutti molto influenzati dal marketing nel giudicare e considerare i brand, e riconsiderare certi dogmi alla luce delle tue esperienze dirette può essere frustrante, ma anche molto illuminante e divertente.

Sembra ci sia un filo rosso che unisce il tuo mondo al cinema. Hai spesso lavorato come title designer (da ‘Onde Nostre’ a ‘No Borders’), hai realizzato animazioni (per il progetto ‘C’era una volta a Roma’ dedicato da Red Bull Music Academy alle musiche dei cult movie italiani) e oggi collabori con una etichetta discografica che si occupa di vecchie colonne sonore. Ci racconti questo filo rosso?
Adoro il cinema ma sopratutto adoro l’estetica del cinema. Il mondo che un genere cinematografico riesce a creare, dalla colonna sonora alla locandina.
Quando mi hanno chiesto di curare i titoli di Spettro non mi sembrava quasi un lavoro; prendevo i dischi originali che avevo a casa e dovevo riprodurli, restaurarli, cercare immagini dagli archivi dei manifesti per arricchire le copertine… a volte creare la grafica assemblando delle parti esistenti e creando lettering da zero, come per “Giornata nera per l’Ariete” di Morricone, di cui l’LP non era mai uscito all’epoca. Negli ultimi mesi i dischi in cantiere si sono addirittura moltiplicati, non avrei chiesto di meglio!

Come coltivi la tua passione per il digging? A me, come attitudine, ricorda molto quel periodo nel quale andavi in giro a fotografare insegne belle di vecchi negozi…
Le insegne sono diventate un libro, “Italia insegna” (Lazy Dog Press). Era da tempo che volevo farlo è ha riscosso anche un buon riscontro, la versione italiana è sold out. Il digging è ormai una costante, sia quando viaggio che quando ho un attimo di tempo, penso sempre ai prossimi dischi che vorrei trovare. Il momento migliore è quando scopri un nuovo filone, ora sono davvero sotto con le Library, c’è da diventare pazzi… Il confine fra la passione e la bulimia è davvero sottile.

Qualche sera fa hai portato il tuo dj set a Jazz:Re:Found. Come prepari un dj set e cosa ti da questa pratica?
Cerco di mettere assieme le cose che ho collezionato e che ho voglia di far sentire agli altri, a volte creando un percorso che magari mi consente di partire da un disco soul, poi qualche pezzo brasiliano, passando per l’exotica di Lex Baxter e l’etnica sperimentale di Umiliani, per poi arrivare alle Library, ai breakbeat e finire con l’hip hop golden age. Il dj set deve rappresentarti. Per me deve essere una proposta, un momento d’ascolto che porta la gente nel tuo mondo.

“Take Your Pleasure Seriously” è stato un punto fondamentale della tua biografia. E la Lazy Dog press, la casa editrice che lo pubblica è diventato un altro dei tuoi tanti progetti. Cosa ha significato per te quel libro?
È stato il momento con cui ho chiuso un cerchio, un momento della mia vita in cui volevo dire “questo sono io”. È stata una bella soddisfazione, sopratutto perché l’ho fatto creando la nostra casa editrice, senza nessun compromesso. Ora sto pensando al prossimo.

Lunedì inaugurerai con la tua performance il progetto di video mapping Dimora Luminosa di Ied e Fake Factory. Cosa farai? Non so perché ma mi viene in mente il tuo lavoro a York per Wall of Light…
Sì anche a me, ma la tecnologia del progetto Tagtool era molto diversa dal set up che userò a Firenze. Questa volta la base sarà completamente analogica, ripresa e poi proiettata live sulla facciata della chiesa di Santo Spirito. Tutto avverrà improvvisando dal vivo.

Ho la sensazione che presto la tua ricerca ti porterà verso pennelli digitali e spazializzazioni tridimensionali dei tuoi segni. Sbaglio?
Sto provando la calligrafia in VR. La realtà virtuale è affascinante. I gesti per creare una lettera magari sono gli stessi di mille anni fa, cambiano gli strumenti. Una volta compreso questo le possibilità sono infinite.

di Andrea Mi

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