Sgombrate la mente da immagini legate a Tenerife come località di vacanza per turisti agognanti sole, mare e spiagge dorate. Queste sono fotografie dedicate alle sue architetture che, moltiplicatesi a vista d’occhio negli ultimi anni, lasciano ormai pochi spazi vuoti, liberi per far volare la fantasia e godere la vista del mare. Architetture impersonali le une uguali alle altre in un susseguirsi di muri, finestre e balconi tinteggiati di vernici sfregiate, a volte, dal tempo e dalla salsedine.
Impersonalism: Tenerife è il progetto di Luca Arena realizzato nel 2016 durante un viaggio di sette giorni nell’isola delle Canarie. Affascinato da quelle forme geometriche che tagliano in riquadri definiti i panorami del mondo, Luca tiene a definirsi un “fotografo di architettura” perché agli edifici rivolge la sua attenzione e uno sguardo indagatore ricco di curiosità.
Le fotografie del suo progetto sono in mostra sino al 29 marzo presso Spazio 32 a La Spezia.
Leggiamo le sue parole:
“Lo scopo di questo progetto è il tentativo di azzerare quasi completamente la presenza delle persone sull’isola attraverso un approccio non-antropocentrico all’ambiente, evidenziando i colori e le geometrie delle strutture architettoniche. Qui, gli stili abitativi tipicamente spagnoli, con case dal tetto piatto, bianche o dai colori sgargianti si fondono con la necessità di voler rappresentare, almeno ipoteticamente, lo sprawl urbano delle grandi capitali europee, con residence turistici moderni, impersonali e molto simili tra loro costruiti nel mezzo di luoghi incontaminati o presso le località balneari altamente turistiche. I viaggiatori di passaggio poco si preoccupano del fatto che gli edifici siano tutti uguali, potendo godere della sicurezza nell’aver trovato la medesima disposizione degli spazi a loro sufficienti. Sebbene circoscritto, questo fenomeno tende a svilupparsi soprattutto nelle periferie urbane, e tra gli effetti principali è impossibile non rilevare un elevato consumo del suolo e, di conseguenza, una riduzione degli spazi verdi.”
Così quei muri colorati di tinte appariscenti paiono senza spesssore, appoggiati alla terra come quinte teatrali, provvisorie e pronte a volare alla prima folata di vento. Lasciando in noi quell’incertezza che la vita di chi vive lì dietro non sia difesa ma in balia degli eventi del tempo. Talmente sottili quei muri che sentiamo i rumori provenire da lì dietro. E vediamo anche i rumori, immaginando le donne, gli uomni, i bambini che parlano, si muovono, vivono. Ma è un’immagine fuggevole. E ritornano quei muri silenziosi.
Le finestre strette, in fila, in una sequenza triste lontana dall’idea solare della vacanza. Progettate perché necessarie. Per far sopravvivere chi abita quegli spazi.
E si riparte con il racconto di Luca:
“A causa del ritmo incessante e accelerato di espansione delle città e della domanda di nuove costruzioni, gli edifici tendono ad essere simili gli uni agli altri, caratterizzati dall’estrema omogeneità e da un disegno prevalentemente uniforme dell’ambiente costruito. Ogni città va somigliando a tutte le altre città, i luoghi si scambiano forma ordine e distanze. Il desiderio di distaccarsi completamente da queste scelte stilistiche, si traduce in un’indagine intima e personale volta, da una parte all’accettazione di quanto ormai presente, e in secondo luogo nel rifugio in luoghi-non luoghi costituiti da geometrie lineari, rassicuranti e familiari, come un campo da calcio o una piscina a picco sul mare di un piccolo paese di pescatori spagnoli.”
Ci rimane la nostalgia di quel mare invisibile e la piscina, ricoperta da una lastra di ghiaccio decorata da sfere rubate ad un pallottoliere, attende frotte di nuotatori vacanzieri. Placidamente inquieta.
Il campo da calcio, dipinto color blu mare delle giornate di sole e vento cristallino, è adagiato vicino al mare vero come un tappeto. Decorato da bianche linee geometricamente calcolate, anche lui, solitario, è in attesa. Quello scoglio brunito ci stupisce, imprevedibile nella sua forma naturale.
Muri potenti difendono beni e vite. Una fortezza collegata con il mondo grazie alle antenne. Filiformi, alleggeriscono quei tetti piatti con la grazia leggiadra e tintinnante delle sculture di Calder.
La natura rinserrata tra cemento, pietre, acciaio. Gli umani rinchiusi in moduli replicabili all’infinito. Le piante vere paiono finte. O sono finte piante che paiono vere? Solo il mare è riuscito a non farsi ingabbiare, ma ha perduto la sua voce.
Un muro che pare il mare. Un mare silente per uomini scomparsi.
Luca Arena (1988) è nato il primo giorno di primavera alle 9:30. È daltonico da 28 anni e ogni giorno cerca di farsene una ragione. Ha studiato economia e marketing presso l’Università di Pisa e nel tempo libero si dedica a viaggi e reportage fotografici. Molto legato al tema dei colori e alla loro percezione nel contesto ambientale, ama fotografare palazzi e finestre concentrandosi sulle linee e sulle geometrie. Per le sue fotografie si ispira ai quadri di Edward Hopper e Mark Rothko, nonché alle opere di Luigi Ghirri e Josef Hoflehner. I suoi lavori sono stati pubblicati nel 2016 su Domus, Objects, e-architect, Il Mitte e Totally Lost. Ha all’attivo diverse mostre personali e collettive.