“Uno dei motivi più forti che conducono gli uomini all’arte e alla scienza è la fuga dalla vita quotidiana con la sua dolorosa crudezza e la tetra mancanza di speranza, dalla schiavitù dei propri desideri sempre mutevoli.”
Mentre Einstein interpretava così il rapporto tra arte e scienza, Fabio Barile, fotografo pugliese, si è servito della scienza per riappropriarsi della sua arte in un momento di stasi creativa, in fuga dai convenzionalismi alla ricerca di un pensiero del tutto personale. Dalla passione per la fisica il suo interesse si è spostato alla geologia per affrontare il tema dei terremoti realizzando degli scatti grazie ai quali è stato nominato tra i finalisti del talent prize 2015. Sovrapposizioni di livelli in un connubio tra arte e scienza, fotografia e geologia, sviluppatosi poi in An investigation of the laws observable in the composition, dissolution and restoration of land in cui i suoi esperimenti diventano nuovi campi di investigazione artistica riscrivendo ciò che è l’idea della fotografia di paesaggio italiana oggi. Come un piccolo artista scienziato, Fabio Barile fa uso delle tecniche più tradizionali, delle pellicole fotografiche e degli oggetti di uso quotidiano per trasformali in nuovi linguaggi a servizio delle leggi della Terra.
Prendendo ispirazione da James Hutton, Timothy O’ Sullivan e Berenice Abbott, il lavoro è uno studio attraverso immagini dell’intricata e complessa formazione della terra, un conglomerato di esperimenti, evidenze geologiche sul terreno e sul paesaggio che come tessere di un mosaico creano un panorama dei molteplici aspetti della geologia.
In occasione della sua personale presso la Galleria Matèria di Roma l’abbiamo incontrato e vi presentiamo qui la nostra intervista.
Qual è stata la tua formazione e qual è stato il percorso per arrivare a questo progetto?
Ho una formazione che non posso definire di tipo “classico”. La scuola non mi appassionava. È stata la scelta di andare a studiare a Firenze, alla Fondazione Studio Marangoni, che ha cambiato il mio percorso. In quegli anni ho anche iniziato a lavorare sul paesaggio, a partire dal progetto Among, dedicato all’erosione delle coste italiane. Mi sono poi interessato sempre di più alla Scienza, arrivando al progetto attuale dopo un periodo in cui non mi bastava più fare fotografia di paesaggio in sé. Leggevo e studiavo qualsiasi cosa, dalla Biologia all’Astrofisica, e tentavo di registrare le onde elettromagnetiche del computer su lastre fotografiche, facevo tentativi di questo genere, tutti fallimentari. Nel 2013 sono stato invitato all’Aquila per un progetto dedicato al terremoto del 2009. Lì ho iniziato ad unire il mio nuovo interesse per la Scienza con la fotografia di paesaggio. Per me il terremoto non sono solo i palazzi che crollano, ma la terra che si muove e si ripiega, quindi, per capire le dinamiche del territorio, ho chiesto ad un geologo aquilano di spiegarmi i fenomeni che avevano causato il terremoto. Dopo aver fotografato le montagne, gli ho chiesto di disegnare sulle foto i movimenti della terra in atto. Questo è stato il punto di partenza. Da quel momento mi sono sempre più appassionato alla Geologia e ho sentito la necessità di approfondire questo progetto. Da lì sono passati tre anni.
Nella mostra hai presentato tre differenti approcci alla fotografia. Da cosa derivano?
I tre differenti approcci manifestano tre elementi del mio modo di intendere la fotografia. C’è un primo aspetto legato alla tradizione della fotografia di paesaggio italiana, un secondo approccio riguarda i tentativi a cui accennavo sopra, attraverso l’utilizzo diretto della pellicola fotografica, per registrare eventi che non posso fotografare, ad esempio la formazione delle Hawaii. C’è infine un terzo elemento, gli still life che descrivono i meccanismi di formazione del paesaggio. Questi, nello specifico, derivano da quella fase in cui mi ero in parte distaccato dalla fotografia e appassionato alla Scienza. Mi forzavo a fotografare per sbloccarmi e le prime cose che ho fatto sono state in casa. Da qui poi ho sviluppato sempre più questo aspetto della mia pratica.
Lavorando a casa è come se avessi registrato nella tua mente il paesaggio e potessi vederlo anche senza averlo vicino. Da qui nasce una visione del tutto personale.
Per me gli still life rappresentano la struttura funzionale del paesaggio, come le figure geometriche per Cézanne, è un riassumere nelle forme fondamentali. In futuro stamperò gli still life in un formato più grande per accentuare il fatto che siano paesaggi.
In questo sta la relazione tra la fotografia e questi esperimenti, il fatto di vedere il paesaggio ma in maniera differente.
Diventa un’astrazione, come nel film Matrix quando uno dei protagonisti riesce a vedere la realt semplicemente guardando i codici di programmazione del software. Il mio modo di fare è molto intuitivo e non prettamente scientifico, espressione del fatto che non sono uno scienziato, tutti i miei lavori di still life sono realizzati in modo empirico e con materiali d’uso quotidiano, oppure utilizzando materiale fotografico come la pellicola, un omaggio alle verifiche di Ugo Mulas.
Come nascono questi esperimenti?
Alcuni sono inventati, altri sono esperimenti realizzati realmente dai geologi per capire la dinamica di fenomeni naturali che non possono osservare direttamente in natura, e che quindi vengono simulati per analogia usando materiali che si comportano in maniera simile a quelli studiati, altri ancora vengono ad esempio da giochi che si fanno fare ai bambini per fargli comprendere determinati meccanismi, comunque sono tutti reinterpretati.
Le foto rappresentano un processo che si sviluppa in un determinato lasso di tempo. Hai pensato di trasferire questi scatti in video o è una dimensione che non ti appartiene?
Ci ho pensato però non lo sento mio, la rappresentazione dell’esperimento diventerebbe troppo didascalica e già in parte lo è. Preferisco che il dinamismo sia solo suggerito, mi sembra comunque più stimolante dover inventare degli stratagemmi per suggerirlo. La cosa più vicina al video che ho fatto sono delle serie di immagini, in questi casi la componente temporale non è riassumibile in un singolo scatto.
L’elemento naturale non è solo oggetto di studio ma è materiale utilizzato per la creazione dell’opera. Sembra che ci sia una commistione tra natura e fotografia. Pensi sia intenzionale o no?
Non penso sia una scelta consapevole ma piuttosto una necessità. La fotografia è un processo chimico, ma comunque naturale. Al primo anno del corso di fotografia a Firenze dovevo scrivere un testo critico per un lavoro che avevo fatto sull’edera che avvolge gli alberi. Nel testo parlavo della similitudine tra essere umano e edera. Così come l’edera invade tutta la chioma dell’albero rischiando di farlo morire inconsapevolmente, così l’essere umano rischia di “uccidere” la terra, nel testo parlavo della città come naturale evoluzione delle grotte, e non qualcosa di innaturale. Non credo alla differenziazione che si fa tra natura e cultura, all’essere umano che si sente separato dalla natura, qualsiasi cosa costruiamo, da una fotocamera digitale ad un aereo, deriva da ciò che troviamo sulla terra e da processi mentali che sono naturali; per me non esiste il naturale e non naturale fa tutto parte di un naturale flusso evolutivo.
Ogni tua fotografia è stata scattata in Italia ed ha sempre la collocazione geografica, ma pensi che il tuo lavoro possa essere più universale?
Spero di si, il primo motivo per cui sono scattate solo in Italia è la mia impossibilità di viaggiare, perché lavoro come stampatore fine art e non come fotografo. Avrei potuto fare lo stesso tipo di progetto anche all’estero. Questi luoghi sono simboli dei fenomeni naturali che ricerco, non è il posto in sé che mi interessa, ma il fenomeno.
All’estero il risultato sarebbe stato lo stesso?
Direi di sì, come dicevo mi interessano i luoghi per ciò che rappresentano dal punto di vista geologico e questi meccanismi sono globali. E tornando all’altra domanda invece, il secondo motivo per cui mi interessa che il lavoro resti circoscritto all’Italia, è perché legato alla tradizione del paesaggio italiano. Questa scelta implica un modo di fare che, come per gli still life, mi porta a lavorare con quel che si ha, con il quotidiano e il comune, cercando di scardinarlo e farlo diventare altro.In Italia abbiamo un’ingombrante storia della fotografia legata al paesaggio e la mia sfida è prendere quel bagaglio e renderlo qualcosa di più complesso ed internazionale. Sono italiano ma anche “figlio” della generazione di internet con influenze che vanno ben oltre i confini nazionali, anche nell’estetica mi sento più vicino alla fotografia nord europea.
Ad esempio?
La scuola di Dusseldorf ad esempio, della quale però non sento di avere la freddezza, direi che sento sia l’influenza di Thomas Struth e dei coniugi Becher, per fare due nomi, ma anche di Guido Guidi e gli altri fotografi legati all’esperienza di viaggio in italia.
Ti stai dirigendo verso qualcos’altro?
Sto realizzando una cosa che per ora è solo all’inzio. Un lavoro fatto solo di still life e, anche in questo caso, l’ispirazione viene dalla Scienza, ma in maniera ancora meno “scientifica”. È un oggetto a cui aggiungo giornalmente dei pezzi a caso e che fotografo ad ogni passaggio. È un ragionamento sul ruolo dell’accumulo, delle modifiche e della casualità negli organismi biologici, solo che lo faccio con materiale non organico; si svilupperà nel tempo, come un organismo o il suo DNA.