– Switch to page 2 for english version –
Funghi e pesci, piante carnivore e insetti, cibo e utensili da cucina. Mani, sguardi che si incrociano, luci, fumo e ombre. Immagini costruite minuziosamente e attimi rubati nei più celebri club di Londra. Quello che si muove si ferma e quello che è fermo si muove. Per un istante. Quell’istante che Enrico Policardo cattura e trattiene nelle sue fotografie.
Iniziamo con le presentazioni: sappiamo che sei un fotografo italiano, di base a Londra già da qualche anno. Raccontaci qualcos’altro di te…
Mi sono trasferito a Londra nel 2010, sono passati quasi sette anni. Sembra, anzi è, parecchio tempo fa.
Fotografo. Ho sempre pensato che per definirmi tale avrei dovuto guadagnarmi da vivere facendolo e il fatto di esserci riuscito credo si possa definire un lusso. Reputo un gran privilegio avere la possibilità di espandere la mia sensibilità indagando il mondo del “non necessario”, di occuparmi di problemi di estetica, nel senso filosofico del termine, senza dover preoccuparmi di come arrivare a fine mese. Con ciò non voglio aprire un inutile e lunghissimo dibattito sulla natura dell’arte. Dico solo che mi sento molto fortunato.
Ovviamente quando ho iniziato ho fatto mille altri lavori per sostenere il mio vizio per la fotografia; quando ero ancora in Italia ho lavorato per anni in un bar, qui a Londra per diverse compagnie (tra cui American Apparel) e come chef, grazie al mio amore per il cibo e la cucina (soggetti che negli anni ho spesso fotografato con il mio maestro Francesco Majo).
Come ti sei avvicinato alla fotografia? Cosa ti ha ispirato?
Penso che a ispirarmi sia stato mio padre. Non è mai stato un professionista intendiamoci, ma la fotografia e la pittura erano cose che praticava.
Non ho mai avuto l’inclinazione e la dedizione per il disegno e credo di aver avuto sempre una curiosità futurista per le cose tecniche.
La mia prima macchina fotografica era gialla, di Topolino; non sono mai riuscito a farla funzionare, mi sembra mancassero dei pezzi, non ricordo. Da quel momento ho sempre avuto macchine fotografiche per le mani, più o meno decenti. Poi attorno ai 14 anni ho comprato una Olympus Superzoom a pellicola, la macchina della svolta. Ho sempre considerato la fotografia prima un mestiere, un saper fare, qualcosa di artigianale piuttosto che direttamente artistico. Credo che l’arte arrivi quando l’atto tecnico è completamente assimilato oppure, rovesciando completamente la prospettiva, quando la tecnica è ininfluente ed è l’espressione in qualsiasi forma ciò che veramente conta: uno scatto sfocato, sovraesposto, che non segue alcune regola compositiva, un disegno abbozzato su un tovagliolo, della musica registrata su una audiocassetta, un video girato con un telefono.
Dal 2013 insieme a Roberto Rosolin, art director del Fabric di Londra, ti occupi di realizzare le immagini delle grafiche del celebre club. Come nasce questa collaborazione?
Veniamo tutti e due da Gorizia, ma questo conta poco o nulla. Certo, ci conoscevamo ma non siamo mai stati amici. Io ho seguito la mia strada, fatto i miei studi, vissuto a Venezia e poi spostato a Londra nel 2010. Nel frattempo ho continuato a scattare foto, a girare video. A Londra abbiamo cominciato a frequentarci e a individuare una compatibilità di vedute sull’arte, una condivisione di scelte estetiche. Abbiamo scoperto di aver indagato, in tempi diversi, gli stessi luoghi della nostra città di origine; abbiamo fotografato gli stessi angoli ma con prospettive e propositi diversi.
È strano pensare a come sia facile credere di conoscere i luoghi da cui veniamo solo perché ci abbiamo passato una vita quando invece basta guardarli attraverso gli occhi di qualcun altro per mettere completamente in crisi le nostre certezze. E questo vale per molte cose. L’unico modo per sapere cosa passa per la testa di qualcun altro è il dialogo, il confronto.
Questi lavori uniscono, come dicevamo, la fotografia alla grafica e contribuiscono a creare l’identità di un prodotto. Qual è il denominatore comune che li rende riconoscibili e riconducibili a un unico progetto?
Per Roberto Fabric era già un riferimento dal punto di vista grafico grazie al lavoro intrapreso da Jon Cook e Village Green Studio. Fabric ha avuto la capacità di imporre la sua estetica con coerenza e costanza nel corso degli anni. I pieghevoli che uscivano alla fine di ogni mese erano una specie di oggetto di culto da collezione. Ciò è avvenuto grazie alle scelte intraprese sia a livello musicale che comunicativo. Il lavoro non è unilaterale. Non si tratta solo della grafica, della foto, della proposta musicale, delle luci. È l’insieme che contribuisce a creare l’identità del club stesso. Fabric è un hub, un punto di riferimento, non solo per la comunità musicale ed artistica che ruota attorno ad esso ma per Londra stessa, basti vedere la reazione del pubblico alla chiusura del club avvenuta lo scorso anno.
Non affronto questo progetto come un lavoro per un committente: quello che faccio è cercare di incanalare tutta questa energia, tutte queste fonti di ispirazione in un percorso di ricerca piuttosto che verso un obiettivo predefinito, sia esso un flyer, un banner online o qualsiasi altra cosa.
Nella serie Bubbles il tempo si ferma, bloccando attimi quasi impercettibili ad occhio nudo e svelando dettagli che variano a seconda della luce e della posizione del tuo occhio rispetto all’oggetto. Ci racconti come vengono realizzate immagini come queste?
Si tratta di immagini scattate ad alta velocità di otturatore. Maggiore è la velocità dell’evento fotografato maggiore è la difficoltà di bloccare in foto un attimo di questo evento. Qui si tratta di bolle di sapone, che non costano granchè e non hanno bisogno di grandi precauzioni per essere fotografate, ma se pensiamo agli scatti con proiettili o qualcunque altra soggetto che si muove ad un alta velocità le cose inziano a complicarsi. Diciamo che con le bolle di sapone ci siamo armati di pazienza e ne abbiamo soffiate qualche migliaia prima di essere soddisfatti del risultato…
Hai studiato Cinema al DAMS. Questo tipo di formazione ha qualche influenza sul tuo modo di costruire un’inquadratura? Se sì, in che modo?
Spesso mi dimentico che chi si trova di fronte ad un’immagine si trova di fronte a qualcosa di finito, estrapolato dal suo originale contesto, dallo spazio e dal tempo da cui è stato originato. Credo che questo derivi dal fatto che ancora oggi considero una fotografia uno dei 36 fotogrammi di una pellicola, come in un film.
Se prendiamo una qualsiasi azione e la filmiamo esisterà un fotogramma che ha più densità di significato rispetto a tutti gli altri. Se pensiamo and un vaso che cade probabilmente sarà il momento in cui tocca il suolo e va in mille pezzi. O forse no. Perché deve essere quello, rispetto a tutti gli altri, il momento in cui quell’azione raggiunge il massimo della sua espressività? Credo che quando fotografo il mio approccio sia questo.
Non ho la presunzione di consegnare a chi osserva le mie foto qualcosa di definitivo, un momento necessariamente più importante di altri. Tutti i momenti lo sono, o almeno lo sono per chi li vive. Se così non fosse la nostra vita sarebbe più importanti in alcuni momenti e meno in altri? Con questo non voglio dire che dovremmo fotografare ogni istante della nostra vita, anzi, probabilmente l’opposto, dovremmo semplicemente imparare a viverla più profondamente osservando noi stessi e gli altri non con un occhio di giudizio ma con semplice e genuina curiosità e tenerezza.
Da qualche tempo collabori con un’altra realtà del clubbing londinese: Oval Space / the Pickle Factory. Un racconto della vita notturna fatto di istanti fugaci e sinceri; uno sguardo imparziale, quasi distaccato mostra la realtà per quella che è e non come ci si aspetta che sia. Quali sono le immagini, le situazioni, gli attimi che preferisci immortalare per sviluppare questa storia?
OS e PF mi hanno contattato perché volevano indagare e ritrarre un lato diverso della vita notturna, del clubbing e della night out in generale. Se è vero che fondamentalmente la gente esce per divertirsi e socializzare, è anche vero che esiste un lato meno evidente che si trova dietro queste dinamiche fatto di microelementi, dettagli, sguardi che riusciamo a percepire solo se ci concediamo una pausa in cui osserviamo quello che succede dentro di noi e conseguentemente attorno a noi. Quello che mi piace fotografare sono queste pause, non intese come assenza di azione ma come assenza di giudizio e consapevolezza della presenza di una macchina fotografica e di un fotografo. La vita non accade per la camera o di fronte ad essa. Accade e basta, e l’idea che questo flusso venga alterato dalla mia presenza come fotografo in qualche modo falsifica il naturale svolgimento della realtà. L’interazione tra fotografo e soggetto è un argomento che mi ha intrigato fin dai tempi dell’università quando studiavo cinematografia documentaria. Il nostro atteggiamento cambia irrimediabilmente di fronte ad una lente. Come fotografi o videografi possiamo tentare di nascondere la nostra presenza (lenti lunghe, teleobiettivi, appostamenti) oppure partecipare all’azione essendo consapevole delle alterazioni che questo elemento (la nostra presenza) introduce nel sistema. Credo che questo secondo approccio sia incredibilmente interessante da un punto di vista relazionale ma anche molto difficile da praticare. Come in ogni rapporto si passa per una reciproca diffidenza iniziale che ci porta a essere poco naturali in ciò che diciamo, facciamo e pensiamo. Fotografare non è solo ed esclusivamente raccogliere immagini di qualcuno. È costruire una relazione, per quanto lunga o breve essa sia.
Si tratta di un progetto diametralmente opposto rispetto a quelli realizzati per il Fabric: immagini statiche, accuratamente progettate e costruite, si contrappongono a immagini estremamente dinamiche, caratteristiche di un ambiente in continuo movimento. In quale tipo di approccio ti riconosci maggiormente?
Non sono particolarmente amante delle citazioni ma rispondo con questa di Jean Renoir: ”Un réalisateur ne fait qu’un seul film dans sa vie. Puis, il le casse en plusieurs morceaux et il le refait”.
Ultima domanda: progetti futuri?
Ho diverse cose in mente, alcuni progetti commerciali e altri di tipo personale. Senza entrare troppo nel dettaglio diciamo che voglio iniziare a lavorare di più sull’essere umano nella sua forma fisica e spirituale, cosa che fino ad oggi ho fatto poco e che adesso sento di voler esplorare.