Quell’estate a Roma il caldo era irrespirabile.
Fendeva l’aria come una cortina di ferro. A nulla serviva spogliarsi, nemmeno i pensionati al bar mi vedevano.
E dire che in quel periodo giocavo ad essere donna.
Come sia successo, non lo ricordo più.
Era una notte di quelle notti afose; stipata in un salotto in finto stile bohémien, sono stata avvicinata da un uomo.
Né troppo adulto né troppo ragazzino.
Tatuaggi lungo entrambe le braccia, di quelli da carcerato o da spacciatore magrebino.
Senza chiedermi il permesso, ha preso uno sgabello e si è seduto accanto a me. Ha preso a parlarmi, come a volermi impressionare.
Inutile dire che ci è riuscito.
Ad un tratto, dopo qualche ballo e un paio di drink, ha preso ed è andato via senza salutare, lasciandomi il suo biglietto da visita all’ingresso.
Sapeva che lo avrei cercato, come sapeva che avrei puntato il classico tipo brutto e sbagliato per me, scelta che ormai sembra accompagnarmi da un po’ di tempo a questa parte.
Quando gli ho scritto, ero di nuovo in viaggio verso Roma. Fingevo ancora di essere donna, ma sudavo giovinezza dal vestito di cotone e acrilico.
Il Pigneto quella sera profumava di gelsomino. Annusavo l’aria preda di un’ebrezza giovane, mai provata prima. Qualche scambio di messaggi e la mia minaccia di suonare tutti i campanelli del Pigneto finché non lo avessi trovato.
Deve avermi preso sul serio, perché ad un tratto mi ha aperto una sagoma da un cancello arrugginito di una strada che non ricordo più.
Aveva un pigiama a righe. Di quelli che ti fanno sorridere per lo stile volutamente ricercato, ma che sanno risultare ridicoli, se tirati fuori al momento sbagliato.
Quella notte l’amore è stato forte, meraviglioso, forse il primo e l’ultimo che abbia mai provato.
Quando ci siamo salutati mi ha fatto promettere che avrei continuato a suonare tutti i campanelli del Pigneto, finché non l’avessi ritrovato.
Li sto ancora suonando.
Racconto ispirato dalle foto di Nico Krijno.