La prima volta che ti ha colpito era una sera qualunque.
Di quelle di cui di solito non ci si ricorda. Una delle tante sere passate sul divano a guardare un film senza troppa convinzione.
Chi ti colpisce ha bisogno di un motivo per farlo e se non sei tu a fornirglielo, lo inventa sulla tua pelle.
Cerca di coglierti in fallo, di trovarti manchevole, di sorprenderti colpevole, di legittimare, insomma, il colpo che sta per infliggerti.
Una volta ho letto che l’universo partecipa agli eventi umani. Dev’essere stato in uno di quei romanzi che compri all’autogrill.
Il cielo si incupisce e, corrucciato e livido, assorbe tutti i rumori. Fuori senti il vento montare, farsi via via più rumoroso, quasi a voler incitare lui e ammonire te, che pensavi che a te non sarebbe mi capitato.
Quella volta hai presagito fin da subito cosa sarebbe successo. Quella, come le altre volte che sarebbero seguite.
Lo senti avanzare, aria di sfida, sopracciglia corrucciate, labbra strette, mani che si aprono a chiudono. Le vedi le sue mani e riesci a percepirne i pizzichi che le percorrono.
Rimani in silenzio a sentire il suo respiro che cresce, si fa affannoso e carico di odio. Un odio puro, folle, ingiustificato. Come quel silenzio, pervicace ed esasperante delle ore prima. Trattieni il respiro, limiti i movimenti, le pupille sempre più piccole e la paura di compiere il minimo movimento.
Ti fai piccola, così piccola che ti sembra di scomparire e in fondo è quello che vorrebbe anche lui. Che scomparissi. La prima volta che ti ha colpito non hai avuto la prontezza di uscire. Sapevi che avresti dovuto infilarti le scarpe ed andartene senza indugiare troppo. Ma era tardi e in fondo non ne avevi voglia, avevi bisogno di essere quella accudita, non di accudire.
Poi il colpo è arrivato.
Rannicchiata nei gemiti più ancestrali, sembravi una prefica, ma il dolore non era simulato. Lui in piedi, i pugni ancora stretti e la vergogna.
Perché chi colpisce, se ne vergogna.
Se ne vergogna a tal punto da tornare di colpo bambino, o primate, che dir si voglia. Se ne vergogna così tanto che usa le rassicurazioni che dovrebbero essere per te, le suppliche che ti rivolge a guisa di rosario, a se stesso. Si convince che non succederà più. Tu invece lo sai che succederà di nuovo.
Però ti svegli di colpo, sudata e ansimante di emozioni del sonno. L’hai immaginato o l’hai solo presagito. Non riesci a dirlo, come non riesci a dire che ora sia. È Il mattino che segue l’alba e precede il brulichio diurno. Quell’ora in cui è troppo presto per incrociare qualcuno e troppo tardi per ignorare la luce del sole. Esci e sei investita di leggerezza. Guardi i contorni delle case, i colori vivi, i profili patinati e i dettagli buttati a terra. Guardi tutto ed è come se vedessi per la prima volta. Non hai bisogno di voltarti, non hai bisogno di ripensarci. Non hai bisogno di nulla. Parti con quel nulla che hai messo da parte. Verso quel tutto che ti si apre davanti. E respiri a pieni polmoni, finalmente libera.
Racconto ispirato dalle foto di Andy N Smith.