Siamo partiti in quattro su una Peugeot bianca di nessuno.
Era la classica macchina d’occasione, strappata all’amico di buon cuore e ignaro di come sarebbero andate veramente le cose. Al volante c’ero io, a digiuno di strade, notti e direzioni giuste da prendere.
Ricordo un’autostrada placida, un cielo terso e un sacco di stelle. Sono larghe le autostrade francesi: puoi sdraiarti nel mezzo e sorpassare con una portaerei e nessuno si accorgerebbe di nulla. Guidavo, guidavo felice, o quantomeno spensierata in quella macchina non mia, con degli sconosciuti che occupavano i sedili posteriori. Com’era normale che fosse, avevamo bevuto, perché tutto fuori ci sembrasse surreale. Continuo a non ricordare per quanto tempo avessi guidato né come ci fossi arrivata a quella serata senza direzione.
Ad un tratto, senza che nessuno avesse la più pallida idea di dove stessimo andando, prendiamo una strada sterrata, ovviamente sterrata e ovviamente impervia per quella macchina un po’ datata. Scossoni, urla e incitamenti per quella povera Peugeot bianca, impantanata e stanca. Finalmente arriviamo, dove, non saprei dirlo.
Ricordo tende, tende di Tuareg, tende opulente, cariche di ornamenti, pregne di incenso, pesanti di tappeti. In ognuna si suonava un genere diverso che nulla aveva a che fare con l’atmosfera. Intorno a me tutti preda di un delirio artificiale, ballavano agitando le braccia. Svogliati i movimenti, trascinato il ritmo del corpo.
Con quella felicità imposta che solo il sintetico riesce ad infonderti, mani e volti mi circondavano, abbracciandomi e parlandomi in lingue che non ricordo più.
Finché non è arrivata lei.
Confusa tra volti tutti deformi, sfocati e pallidi, prende a parlarmi in un inglese biascicato. Aveva un sorriso buono, puro e pieno. Inizia a raccontarmi la storia di quel posto. “Le ‘terre bianche’ le chiamano” – mi dice – . “Terre di nessuno e, proprio perché di nessuno, di tutti”. Luoghi in cui di notte si consuma l’epifania umana che scompare al mattino insieme alle tende, agli incensi e agli acidi. Rimarrei lì per sempre, preda di quel sogno a cui nessuno sembra credere. Le ritroverei ogni notte quelle terre bianche per raggiungerle e lasciarle andare alle prime luci dell’alba. E mi riapproprierei volentieri di un vuoto, un vuoto la cui assenza mi ha sempre spaventato. Un vuoto che non ho mai imparato ad accettare e che mi ha spinto ad occuparmi con le attività più diametralmente opposte a quello che in realtà vorrei essere. Un vuoto che mi ha gettato in pasto a delle imprese, per paura di fallire in quelle a cui ho sempre aspirato. Un vuoto necessario per il mondo fuori, incomprensibile per chi quel vuoto non lo condivide.
Dopo quella notte, ho cercato più volte quella strada sterrata, divenuta ormai una necessità come il migliore degli innamoramenti. Ho chiesto, cercato notizie, seguito tracce, ma non ho più trovato le terre bianche.
E ancora oggi mi piace pensare che quel vuoto che veicolassero le terre bianche, quella mascherata umana non fosse altro che un rimandare a domani tutti i pensieri scomodi. Le terre bianche non esistono. O forse sì e sono un ingresso degno della migliore delle favole. Quella che nessuno ha ancora scritto, ma che meritiamo tutti.
E tutti con il finale che abbiamo deciso noi.
Racconto ispirato dalle foto di Pat O’Rourke.