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Artwort Design Graphic Design Behind The Cover – We Eat Together x Selton
  • Graphic Design

Behind The Cover – We Eat Together x Selton

  • 21 Febbraio 2018
  • Tommaso Mauro

We Eat Together è uno studio di visual design ospitato dalla Santeria di Milano: ultimamente lo studio ha iniziato a imporsi anche nella scena musicale milanese curando, tra le altre cose, la copertina e tutte le componenti grafiche di Manifesto Tropicale, l’ultimo album dei Selton, il quartetto di brasiliani che ormai da qualche anno ha riportato a Milano e in Italia la voglia di tropicale e di esotico.
Manifesto Tropicale infatti è come la sua copertina: un caleidoscopio di colori e di culture. Un po’ come lo è il Brasile, i brasiliani e come lo sono anche i Selton: “Son brasiliano ma parlo italiano, non so se son índio o son indie”.

Manifesto Tropicale – © We Eat Together
Manifesto Tropicale – © We Eat Together

In molti lavori della scena milanese c’è il vostro zampino ma guardando il vostro sito, tra funk e Miles Davis, si evince ben poco su di voi. Vi va dirci qualcosa in più su We Eat Together?
Siamo nati come studio solo nel febbraio 2015 quando Eduardo e Federica si sono aggiunti a Folp che era già grafico residente di Santeria e Magnolia. Da allora, abbiamo lavorato come studio di ricerca per i clienti già esistenti e ampliato il portfolio nelle direzioni più disparate. Non abbiamo uno stile specifico: pensiamo ancora che il design sia una pratica di problem-solving e non un modo per dare forma alle proprie pulsioni estetiche. Questo approccio ci permette di collaborare, divertendoci, con partner molto differenti tra loro e, soprattutto, di annoiarci molto poco.

Tra Casa Selton, Balera Favela e la scena elettronica italiana sempre più sudamericana, sembrano meno lontani i tempi in cui Toquinho suonava in sottofondo ai siparietti tv di Vinícius de Moraes e Paolo Villaggio. Effettivamente si sente questo revival tropicale a Milano? Come siete incappati in questo gruppo di brasiliani e com’è nata poi la vostra collaborazione?
Paradossalmente l’idea di tropicalizzazione (come diceva Dominique Gonzalez Foerster) è da tempo parte dell’immaginario italiano. Sarà per la passione condivisa per il calcio, per la cultura mischiata frutto dell’immigrazione italiana in Argentina e in Brasile nello scorso secolo, oppure, soltanto per il desiderio e la curiosità di capire cosa c’è dall’altro lato del Mondo.
Nel nostro caso è stato il Sud del mondo a incappare qui: è dal 2015 che Dudu, bassista e grafico dei Selton, lavora fisso anche qui.

Come è stato lavorare a Manifesto Tropicale, l’album con cui i Selton hanno tirato in ballo Oswald de Andrade, i Tristi Tropici di Lévi-Strauss e la Tropicália di Veloso?
Tutti questi rimandi musicali e letterari arricchiscono l’immaginario e portano un sé un bagaglio culturale, storico ed estetico: creano un punto di riferimento per ciò che stai comunicando e ti fanno domandare: devo dare continuità rispetto al preesistente o devo contrastarlo completamente?
Rispetto ai riferimenti che hai citato, forse, il punto principale per noi è stato confrontarci col fatto che generalmente si tende a pensare il Modernismo come una corrente europea univoca. In realtà, in Brasile esso si è riproposto in maniera completamente diversa, com’è stato, ad esempio, nella Settimana dell’Arte Moderna del ’22: se in Europa le motivazioni vanno cercate nel contesto e in alcuni cambiamenti radicali, nella velocità della vita imposta dalla Rivoluzione Industriale, nelle malattie fatali dell’epoca e nel clima anteguerra, in Brasile, dove non c’è stato tutto questo casino, il Modernismo era un profondo guardare indietro alla vera identità del brasiliano, un po’ portoghese, un po’ africano ma soprattutto un po’ indios.
Il Manifesto Antropófago di Oswald de Andrade è stato una delle principali opere di quel periodo e dietro quel grande uomo c’era la sua sposa Tarsila do Amaral, una delle principali pittrici della storia sudamericana. Il suo Abaporu è contemporaneo oggi come lo era cent’anni fa.

Abaporu – © Tarsila do Amaral
Abaporu – © Tarsila do Amaral

Com’è nata questa copertina?
Come tutti i parti naturali, un po’ faticoso 🙂
L’idea iniziale era di utilizzare una vecchia foto d’archivio di una bambina che piangeva. All’ultimo, però, si è deciso di cambiare perché la foto convinceva lo studio ma non tutti coloro che erano coinvolti nel progetto. A quel punto abbiamo guardato le prove precedenti e partendo da una rivisitazione della copertina del libro imbullonato di Depero (del quale, tra l’altro, abbiamo utilizzato una distorsione della tipografia per creare le scritte sulle giacche della band), Folp, art director e mago di Wet, ha girato tutte le forme e i colori e in 30 secondi cronometrati ha creato la versione definitiva dell’artwork che è finito sulla copertina.
La bambina che piange, invece, è finita dentro il booklet e ovviamente sull’amplificatore di Dudu.

Copertina migliore di sempre?
Questa è una domanda difficile, bisogna capirsi su cosa chiediamo ad una copertina: di essere memorabile? Di vendere più dischi? Che la gente se la tatui? Di sopravvivere al disco? Di descriverlo?
Per ognuna di queste categorie avremmo una copertina migliore di sempre. Oppure potremmo chiedere alle copertine di cambiare il significato di copertina? Non sappiamo dirlo di preciso, forse vale tutto. Se la domanda invece è relativa solo a una questione di gusto, allora dovrete accontentarvi di tre copertine migliori, una per ciascuno in studio. Per Folp, nulla eguaglia la forza di Blue Lines dei Massive Attack. Per Dudu, Primal Scream – Screamadelica e per Fede, II – Moderat

Blue Lines – © 3D & Michael Nash
Blue Lines – © 3D & Michael Nash
Screamadelica – © Paul Cannell
Screamadelica – © Paul Cannell
II – © Pfadfinderei
II – © Pfadfinderei

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Tommaso Mauro

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