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Artwort Architettura Una nuova generazione di architetti – intervista a Gianpiero Venturini
  • Architettura

Una nuova generazione di architetti – intervista a Gianpiero Venturini

  • 24 Gennaio 2020
  • Cristina Gallizioli

Cosa significa essere architetto oggi? Quali sono gli immaginari e le direzioni della nuova generazione di architetti? Per cercare di capirlo abbiamo intervistato Gianpiero Venturini, autore di ATLAS of emerging practices: being an architect in the 21st century. ATLAS è un libro che raccoglie e sistematizza in modo critico le pratiche di un ampio numero di studi emergenti, per delineare i nuovi tratti di questa professione. Dando voce a 95 studi europei presi come campione, l’atlante crea un’immagine pragmatica di cosa significa essere architetto oggi, e costituisce una possibile guida per le nuove generazioni che si avvicinano all’architettura.

Il cuore del libro affronta quattro temi: Organisation, Business, Media, Projects. Organisation esplora la configurazione dei giovani studi, i rapporti fra i loro componenti, le motivazioni per avviare lo studio e il modo di definire il proprio lavoro. Business analizza le risorse, i tipi di commissioni e le aree geografiche in cui gli studi lavorano prevalentemente. Media indaga le potenzialità del digitale nell’attivare progetti e trovare nuove commissioni e connessioni. Projects presenta i progetti costruiti e mostra l’impatto reale dei giovani progettisti sullo spazio.

Il libro ATLAS è parte del più ampio progetto New Generations, una piattaforma di incontro e scambio culturale tra giovani studi emergenti, curata da Itinerant Office di cui Gianpiero Venturini è fondatore.

Per analizzare la nuova generazione di architetti hai scelto una dimensione europea, i nuovi studi infatti raramente lavorano solo in un paese, ma spesso coltivano relazioni strette con paesi contigui. Che ruolo ha la dimensione europea nello sviluppo della professione?
Quando presento pubblicamente il lavoro di Itinerant Office mi capita di fare una breve introduzione per raccontare da dove provengo. Mi definisco come parte della cosiddetta generazione Erasmus: tra i primi ad aver studiato fuori dal mio paese, ho deciso di intraprendere una carriera lontano da casa che, negli ultimi 15 anni, mi ha permesso di vivere in numerose città, tra cui Milano, Londra, Tokyo, Rio de Janeiro, Amsterdam e Madrid. Ho beneficiato in prima persona di una nuova dimensione europea aperta e ne sono un forte sostenitore. Credo che l’Europa sia una delle cose più belle che sia successa negli ultimi 20 anni, e come architetto che ha deciso di intraprendere un percorso all’estero, e che tutt’oggi sviluppa progetti in diversi contesti geografici, mi sento di dire che senza Europa non ci sarebbero state le condizioni per fare il mio lavoro e quello di tanti altri professionisti che, come me, lavorano a cavallo tra l’Italia e altri paesi.

In ambito architettonico, per quanto concerne la nuova generazione di architetti, assistiamo al proliferare di progetti, collaborazioni e iniziative di vario tipo che hanno ragione d’essere proprio perché rientrano in questo particolare contesto. Trovo sempre più comune lavorare in uno spazio che trascende la dimensione geografica locale, aprendosi a contesti più ampi, e riscontro questo approccio tra i miei coetanei. Fare rete non è sinonimo di nuove commissioni, ma favorisce un continuo scambio di idee, facilita collaborazioni, genera situazioni inaspettate. New Generations si basa su questi semplici presupposti: le condizioni di partenza vengono dal contesto – quello  europeo – all’interno del quale è facile muoversi e generare scambio e collaborazione. Il nostro ruolo è quello di attivare la rete, attraverso le molteplici attività pratiche e teoriche che portiamo avanti da qualche anno attraverso il nostro lavoro.

Piuttosto che concentrarsi sulle poetiche progettuali, ATLAS esamina gli strumenti e i metodi di organizzazione dei nuovi studi. Credi che la poetica sia una caratteristica secondaria dei nuovi studi rispetto al loro approccio innovativo ai tre temi di organizzazione, business e media? C’è una connessione tra gli strumenti di questa generazione e le poetiche che potrebbero generare?
Attraverso il progetto New Generations ho iniziato a confrontarmi in prima persona con la nuova generazione di architetti europei, che ho coinvolto in numerose attività, come Festival, tavole rotonde, workshop, presentazioni pubbliche. Fin dalle prime battute ho riscontrato un particolare interesse per temi pragmatici, come quelli affrontati all’interno della pubblicazione ATLAS. Gli aspetti legati all’organizzazione della pratica professionale, la necessità di trovare fonti di finanziamento per promuovere la propria attività, così come le varie questioni legate alla narrazione che gira intorno al progetto ed alla pratica architettonica attraverso i canali di comunicazione e diffusione digitali. La volontà di concentrarsi su queste tematiche piuttosto che sulla poetica del progetto, è quindi legata alla necessità di rispondere a domande concrete che sono sorte fin dai primi incontri che ho condotto nel 2013, durante una prima serie di video-interviste ad una selezione di studi emergenti, da cui è nata appunto l’idea di New Generations.

Non credo che la poetica del progetto sia secondaria a tutto questo; ritengo però che gli aspetti che ho provato ad affrontare attraverso ATLAS, vengano spesso snobbati, proprio perché non ritenuti all’altezza di una professione che ha perso il contatto con la realtà. Trovare un cliente, raccontare un’idea in modo efficace, o definire una forma organizzativa che risponde a particolari esigenze lavorative, sono aspetti con i quali ci si deve confrontare quotidianamente. Una delle questioni principali che emerge dalle molteplici ricerche che provano a fare una panoramica sullo stato della professione alla scala europea denota l’elevatissima percentuale di architetti in rapporto al numero di commissioni: in altre parole, siamo in troppi – in Italia circa 150 mila, oltre il 25% del totale in Europa – e il numero di commissioni non è sufficiente. Ho pensato quindi che ATLAS dovesse ripartire da questi dati, e provare a dare risposte a problemi concreti che caratterizzano la quotidianità del fare l’architetto.

New Generations e Atlas danno voce a una generazione che non sempre è considerata all’interno del discorso architettonico, il basso impatto di questa generazione è forse dovuta a realizzazioni più limitate nelle dimensioni e nei mezzi. Perché nella sezione projects di Atlas hai deciso di includere solo progetti costruiti?
A partire dalla crisi economica del 2008 molti studi emergenti hanno dovuto intraprendere un percorso indipendente che ha portato alla nascita di nuovi gruppi di lavoro, il cui obiettivo principale era la sopravvivenza, in un contesto con scarse opportunità di lavoro. Il carattere sperimentale degli studi di New Generations risiede nei tre temi-capitoli che anticipano la sezione “progetti”, di cui abbiamo parlato precedentemente. La creazione di nuove forme organizzative, la realizzazione di progetti a costo ridotto e la ricerca di fonti di finanziamento alternative a quelle tradizionali, così come la ricerca di nuove forme di comunicazione, rappresentano, dal mio punto di vista, la base di partenza per comprendere gli aspetti innovativi che caratterizzano la nuova generazione di pratiche emergenti a cui fa riferimento ATLAS.

I progetti inseriti all’interno del quarto capitolo del libro vogliono raccontare visualmente i dati delle precedenti sezioni. Rappresentano il contesto all’interno del quale la nuova generazione di architetti prova a farsi strada, ed una grande diversità in termini di produzione, che varia da appartamenti privati e piccole ristrutturazioni, passando per progetti di riattivazione urbana basati su nuove pratiche di partecipazione e auto-costruzione, fino a installazioni effimere in contesti legati all’ambito dell’arte, dell’architettura e, più in generale, dello spazio pubblico. La sezione progetti si focalizza volutamente solo su progetti realizzati, anche per lanciare un messaggio: la nuova generazione di architetti è viva e molto attiva in un contesto che spesso non trova l’interesse dei mezzi dei comunicazione tradizionali, che preferiscono dare visibilità agli interventi firmati dal grande nome di rilievo, perché in grado di catturare l’attenzione del lettore. Credo però che sia importante ricordare che l’architettura che viviamo quotidianamente è molto più che la grande opera, e trovo che la nuova generazione di architetti abbia una particolare sensibilità per questo tipo di intervento, di meno impatto, ma comunque necessario.

Nel tuo lavoro con Itinerant Office si legge il ruolo fondamentale della collaborazione e delle reti.  In che modo creare connessioni può aiutare nello sviluppo del pensiero personale, oltre che a trovare risposte in comune in periodi di incertezza e di scarsità di progetti?
Fin dal primo momento, New Generations ha provato a porre le basi per la costruzione di una rete fondata sullo scambio, ed i Festival che curo e che abbiamo realizzato a cadenza annuale a partire dal 2013 ne sono la rappresentazione. Il Festival propone un formato all’interno del quale i partecipanti si sentono coinvolti senza delle gerarchie pre-costituite, e dove è semplice ritagliarsi uno spazio per raccontare le proprie idee, e costruire nuovi contatti. L’idea che qualcuno possa “rubarti” l’idea credo sia ormai obsoleta, per lo meno all’interno di una generazione che ha fatto della collaborazione una necessità per poter praticare la propria professione. Sono sempre più numerosi i progetti replicabili, adattabili a contesti di diverso tipo, e multi-disciplinari. Questo non toglie che in un contesto dove la collaborazione sia un atto quasi necessario, dove ognuno possa trovare il proprio spazio per emergere singolarmente, rispettando le gerarchie.

Da un punto di vista strettamente personale posso dire che quasi tutte le attività che realizziamo attraverso New Generations si sviluppano seguendo un doppio binario: da una parte, video-interviste, festival, workshop, pubblicazioni, e via dicendo, sono i nostri strumenti per fare ricerca e produrre contenuti che alimentano continuamente le attività di New Generations e la rete di studi che vengono coinvolti; dall’altra, la continua produzione di contenuti e occasioni di scambio che creiamo attraverso queste attività, sono pensate per generare scambio di idee e nuove collaborazioni, sia per noi, che gestiamo il progetto, sia per i partecipanti che si interessano alle nostre attività.

Workshop, Atelier, Collettivo… i giovani studi usano una varietà di termini per autodefinirsi, che rispecchiano il ripensamento della struttura dello studio e dei metodi di gestione dei progetti. E’ in atto una deliberata de-professionalizzazione della disciplina, verso un approccio più multidisciplinare, immediato e orizzontale? C’è il rischio di perdere delle peculiarità del ruolo del professionista o credi che sia una figura da ridefinire?
Credo che la ridefinizione sia in atto, ed è giusto accettarla come naturale conseguenza delle cose. A nuove forme organizzative corrispondono nuovi progetti, che richiedono competenze al passo coi tempi. Se in passato l’architetto veniva identificato con la figura del direttore d’orchestra (espressione ancora oggi utilizzata da tante figure professionali che si sentono identificate con il cosiddetto sistema degli “star-architects”) oggi la figura dell’architetto si deve necessariamente riposizionare in un contesto che presenta nuove gerarchie mutevoli, che a loro volta generano progetti che non sono propriamente considerati di architettura. Non credo che sia in atto un processo di de-professionalizzazione della disciplina, credo però che la disciplina abbia il dovere di confrontarsi con quello che le sta succedendo intorno, e che l’aprirsi a nuove collaborazioni sia un fatto positivo. La gestione del progetto di architettura sta diventando sempre più complessa, anche alla piccola scala, e trovo logico pensare che ognuno contribuisca mettendo a disposizione le proprie competenze. All’interno di questo contesto, l’architetto è comunque una figura chiave, per la sua capacità di gestire la complessità del progetto in tutte le sue fasi: funge da collante tra figure intermedie che, per formazione, non hanno nel loro DNA queste competenze.

Per quanto riguarda l’auto-promozione ritengo molto positivo avere a disposizione un nuovo spazio di comunicazione, rappresentato dai canali social: in un certo senso, hanno facilitato la diffusione di progetti che non avrebbero trovato spazio all’interno di piattaforme o magazine riconosciuti internazionalmente, la cui linea editoriale è spesso dettata da pochi singoli. Questo processo, oltre ad aver facilitato l’emergere di tanti progetti editoriali indipendenti, ha fatto risvegliare quelle riviste che per decenni hanno dato spazio ad una ridotta cerchia di amici, e che oggi non si possono sottrarre alla diffusione di progetti che raccolgono l’interesse del vasto pubblico, anche quando non sono firmati dal nome di prestigio.

Intendi monitorare il futuro dei giovani studi coinvolti in ATLAS per studiarne l’evoluzione nel tempo? Pensi che crescendo questi studi si allineeranno a format già consolidati o immagini scenari diversi, preannunciati dal proliferare degli unsolicited projects, o da una gerarchia interna fluida?
Stiamo lavorando ad un progetto pilota che intende analizzare un contesto territoriale specifico, applicando una metodologia di lavoro che riparte da quanto appreso attraverso il percorso di ricerca di ATLAS, che rappresenta un’area geografia molto ampia. Parallelamente, una delle questioni che mi preme maggiormente, è quella di sistematizzare la ricerca, e riuscire a darle continuità. Tra poche settimane lanceremo una nuova piattaforma media che proverà a rispondere a questa esigenza, attraverso la pubblicazione di pratiche e progetti di architettura emergenti con cadenza quasi giornaliera.

Tra le tante idee in cantiere, c’è anche quella di seguire l’evoluzione di alcuni degli studi che hanno preso parte alla ricerca, per comprenderne l’evoluzione nel tempo. Ad oggi, per esempio, abbiamo visto che tanti degli studi coinvolti attraverso New Generations durante la prima fase, nel 2012-2014, oggi hanno cambiato forma, nome, struttura: c’è chi ha deciso di intraprendere un percorso diverso, chi ha fondato un nuovo studio, altri si sono separati in gruppi di lavoro indipendente, così come singoli che hanno deciso di unire le proprie competenze sotto forma di collettivo o piattaforma. Una delle questioni principali che chiude la pubblicazione ATLAS tratta proprio questo aspetto. Il libro, inteso come “tool-box”, propone al lettore una nuova riflessione, che consiste nel considerare la propria pratica professionale come primo progetto da realizzare, pensando fin dalle prime battute a tutti quegli aspetti che, nella maggior parte dei casi, affrontiamo solo a carriera inoltrata. Per questo, trovo importante che le università di architettura in generale, facciano una riflessione incentrata su questi temi, introducendo all’interno del proprio programma le questioni emerse attraverso la ricerca ATLAS.

Gianpiero Venturini è il fondatore di Itinerant Office, che attraverso eventi, mostre e pubblicazioni esplora l’architettura creando una rete di scambio per disegnare le rotte di una pratica condivisa. Tra i progetti di Itinerant Office c’è il ciclo di video interviste Past, Present, Future, il festival New Generations e ATLAS. Il libro ATLAS of emerging practices lo trovate qui, con uno sconto per i lettori di Artwort con il codice ARTWORKATLAS.

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Cristina Gallizioli

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