di Valeria Dilauro
“D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, così Marco Polo risponde a Kublai Kan, imperatore –melanconico- dei tartari, in uno dei loro dialoghi che fanno da cornice ai racconti del viaggiatore visionario delle 55 città – reali o immaginarie- dell’immenso impero amministrato dal Gran Kan.
Questa affermazione non fa che confermare, tra le righe, la centralità dei temi della percezione dello spazio e dell’identità dell’individuo in essi, nell’ottica di un’architettura, e dunque una città, nate per accogliere l’uomo, ma anche – e forse soprattutto – la sua memoria.
D’altronde, come Wright affermava nel 1909 nel corso dell’inaugurazione del suo Unity Temple a Oak Park, in Illinois, “qualsiasi costruzione deve essere progettata avendo sempre presente lo scopo per cui viene costruita”; allora la città deve essere pensata, e deve essere pensata in una lunga prospettiva temporale, il cui obiettivo principale ed il cui fine ultimo dovrebbero essere per l’appunto l’uomo e le relazioni umane, essendo questa fitta rete a rendere l’uomo tale. Così, in questa ottica, il concetto di città è associabile a quello di comunità, nell’accezione di con-divisione di spazi e valori.
Nel 1946, nel tentativo di individuare la strada a lui più congeniale, Sottsass scriveva:
“Di solito c’è l’infinito e c’è l’eternità.
Di solito non c’è niente, perché se c’è l’infinito non c’è lo spazio, se c’è l’eternità non c’è il tempo.
Cioè di solito non c’è niente.
Poi uno inventa lo spazio.
[…] Inventare uno spazio significa creare la materia […]”
Quello che rende uno spazio un luogo, qualificandolo, innalzandolo, massimizzandone il significato, non è l’essere circoscritto o l’essere definito entro limiti, ma l’essere con-diviso, vissuto, riconosciuto quale “prodotto” dell’esperienza tanto collettiva quanto individuale.
Nelle prime pagine della Genesi, leggiamo della Creazione, che dal nulla, designa spazi, quegli spazi che assumeranno la connotazione di luoghi solo con la presenza umana.
Certo questo non sminuisce o vanifica la vocazione rituale dell’architettura o dell’arte di costruire la città, quella vocazione a restituire una dimensione cosmica al costruito.
Ancora Sottsass, dieci anni più tardi, dirà:
“La casa è la ricostruzione dello spazio dell’universo come l’acqua versata sulla terra è la ricostruzione della pioggia.
L’architettura è sempre stata, e oggi lo è più che mai, un rito magico: e tutte le volte che si perde la realtà magica dell’architettura si perde anche l’architettura.
[…] L’architettura comincia dove l’uomo è riuscito a possedere in una qualsiasi maniera lo spazio naturale.”
rimarcando in concise riflessioni la dimensione cosmica e rituale, così come la dimensione umana, attorno alle quali si è dipanata e si dipana l’architettura.
Ma se è vero che la conurbazione di più città vicine ha creato le megalopoli del XX secolo, è anche vero che questo ha generato l’insorgere dei non-lieu, come introdotto dall’antropologo francese Marc Augé nel 1992, luoghi che non sono luoghi o che sono luoghi dell’esclusione, dell’emarginazione, in sintesi luoghi che sono tornati ad essere spazi, perdendo così quella peculiare prerogativa di essere identitari, relazionali e storici.
Ma se prerogativa della progettazione oggi sono i valori sociali e dunque il recuperare le relazioni umane, la riflessione allora si sposta sulla città oggi. Riferendosi ad un oggi a noi assolutamente contemporaneo e la cui temporalità, ritualità e gestualità è dettata da precise norme di isolamento e dunque svuotamento delle città stesse.
Nel 1963, Mina cantava “città vuota”. Mai sarebbe stato più attuale.
Questo è la città oggi. Vuota.
Questa è la città che siamo costretti a scorgere dalle nostre finestre, oggi. Allora questo è mostrare le nostre città invisibili, questa è la solitudine degli edifici, dei nostri edifici, che oggi non riescono e non possono assolvere alla loro vocazione di rituale magico e di incarnazione della dimensione umana, perché è esattamente questa la dimensione venuta meno in questo rapporto di reciproco sostegno.
Sono città metafisiche le nostre, oggi. Nel loro attuale essere in una dimensione sospesa fuori dal tempo e dallo spazio, le città si vestono di nuovi significati, evocando altre e nuove associazioni psicologiche, diventando anche indicazione della “terribile solitudine che ci accompagna in questa vita tenebrosa” – come scriveva De Chirico -, mettendo così a nudo l’anatomia del dramma.
Le città metafisiche vivono nel silenzio, come nei dipinti di De Chirico. Sono città dell’assenza: le piazze sono deserte, gli abitanti sono andati via, ci sono solo gli edifici ed i monumenti e poi scarni ricordi di quello che è stato.
“Tutte le case sono vuote
risucchiate del cielo aspiratore
Tutte le piazze deserte.
Tutti i piedistalli vedovi.
Le statue – emigrate in lunghe
carovane di pietra
verso porti lontani.
Strane iscrizioni sorgono a ogni quadrivio.
Avvertimenti funebri di non andar più oltre.
« Pericolo di morte »
Ma anche l’immortalità è morta
In quest’ora senza nomi sui quadranti
Del tempo umano […] ” – L’ora inquietante 1917
Allora forse quella di Nietzsche in un passo de “La gaia scienza” era una visione profetica oltre che una summa della filosofia architettonica nietzschiana: “Bisognerà una volta renderci conto di quello che manca soprattutto alle nostre grandi città: luoghi tranquilli e ampi per la meditazione, luoghi con lunghi loggiati estremamente spaziosi per il tempo cattivo o troppo assolato, nei quali non penetra il frastuono dei veicoli e degli imbonitori, e in cui un più squisito rispetto delle conveniente vieterebbe anche al prete di parlare ad alta voce: costruzioni e giardini pubblici che esprimerebbero nel loro insieme la sublimità del meditare e del solitario andare. […] Quando andiamo errando in queste logge e giardini, è noi che vogliamo aver tradotto in pietra e pianta, è in noi che vogliamo passeggiare.”
Forse, e dico forse perché io in primis ci rifletto su, tutto questo potrà dare una nuova connotazione sì ai rapporti umani, ma anche al modo di vedere e vivere le nostre città, e perché no, potrà dare nuovi slanci al modo di interpretare e progettare la città, così come l’architettura.