di Ilaria Monti
Eder Olguín è un pittore emergente, nato nel 1989 a Puebla (Messico) e con una formazione in parte italiana, acquisita durante i suoi quattro anni di permanenza a Napoli come studente dell’Accademia di Belle Arti. Ora Eder vive a Parigi e le sue opere sono presenti in diverse gallerie tra la Francia e il Canada.
La pittura di Eder si concentra nella ricerca di strumenti con cui esercitare la memoria dello sguardo, come un prendere appunti su tutto ciò che è più familiare per l’occhio, a partire dal corpo nudo. La riflessione ha inizio con la serie “Mnemonic Fetishes” (2017-2018), attraverso cui l’artista ha indagato minuziosamente le forme e le posture dei corpi fino a renderli oggetto di una visione multipla e dinamica, grazie ad un linguaggio spesso teso all’astrazione e in cui sono riconoscibili rimandi alla pittura cubista e un sottile gioco di citazioni delle pose dei classici del passato (Leonardo Da Vinci, Ribera e Caravaggio, espressamente citati in alcune opere della serie). In questo caso, l’occhio di Eder si rivolge soltanto alla figura anatomica, su cui svolge un’operazione di sezionamento, di incrocio e sovrapposizione tra porzioni di corpo o tra più corpi insieme. La memoria del vero, così, finisce per trascendere il dato fisico per smaterializzarlo e scomporlo in dettagli che tuttavia restano sempre riconoscibili.
Lo sguardo poi si sposta dai nudi mnemonici alle scene di vita quotidiana, e la riflessione sulla memoria assume una forma tutta nuova in “Soirées Parisiennes”, l’ultimo ciclo di opere su cui Eder lavora dal 2019. Le serate parigine, fatte di incontri e di intrusioni nelle vite degli altri, collocano la sua produzione nel solco di quella tendenza della pittura figurativa contemporanea particolarmente rivolta a un’intima rappresentazione dell’oziosità del quotidiano.
Le tele sono caratterizzate da un taglio quasi fotografico – molte ricordano una foto sfocata scattata con lo smartphone – ed Eder conferma questa somiglianza raccontando che è solito scattare fotografie prima di dipingere, come supporto della memoria. Le foto, però, non servono a fermare la specificità dello spazio e dei soggetti che lo abitano, ma a catturare le linee compositive, i colori e le sensazioni riconducibili ad un determinato momento dello sguardo. Il risultato sul cavalletto è un’immagine in cui la memoria non riproduce la realtà osservata, ma ne restituisce una sintesi fantasmatica: i volti sono sfumati e irriconoscibili, alcuni hanno a malapena l’ombra degli occhi e delle labbra. Gli spazi sembrano densi di nebbia, con i mobili e gli oggetti resi in volumi morbidi e con le linee prospettiche che a tratti scompaiono. Ciò che più interessa all’artista è che la visione resti aperta all’universo delle possibilità: per questo i dettagli sono quasi tutti cancellati, per questo i luoghi sono avvolti da un alone sbiadito, dall’incertezza. La pittura è una partita che si gioca tra figurazione e trasfigurazione.
Nelle serate parigine di Eder troviamo accennate ambientazioni quotidiane e di svago dove giovani coppie e individui sono ritratti in occasioni di intimità o convivialità, tra un bistrot e l’interno di una casa. Eder trasforma i protagonisti dei suoi quadri in presenze surreali che attraggono lo sguardo dell’osservatore riempiendo lo spazio costruito intorno a loro, apparizioni di passaggio evocate nei territori del ricordo.
L’artista parte dunque dal dato reale e fotografico per metterlo a nudo conservando solo le tracce e le forme, tanto che in una delle più recenti opere il corpo è ridotto ad una pura sagoma: vediamo una donna sorpresa semi nuda seduta su una sedia, e la sua figura si staglia proprio al centro di un fascio di luce da cui però non sembra venir colpita.
La gamma cromatica scelta da Eder suggerisce atmosfere oniriche. Nelle sue opere è frequente l’uso di colori fluorescenti, soprattutto il rosa, che l’artista ottiene da sé miscelando pigmenti in polvere con l’olio di lino. In definitiva, tutto si trasforma nell’esercizio di memoria messo in pratica con la resa pittorica di un momento vissuto che nell’opera perde ogni referente reale, ricomponendosi soltanto nella visione di un tempo sfumato dove il processo di completamento dell’immagine non è mai definitivo.
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