Le interviste immaginarie sono un viaggio intrigante che ci porta ad incontrare, ogni volta, un grande del passato. Cinque domande rivolte con leggerezza per scoprire vita, passioni, progetti, segreti e umanità di questi personaggi, ricostruiti sulle basi del nostro sogno e sulla realtà della storia. Personaggi che si presentano vivi e attuali, ma in tutto rispondenti al loro tempo e alla loro personalità. Per capire veramente come e perché siano così importanti per la nostra cultura.
In questa fredda mattina di fine dicembre cammino frettolosamente perché la grande Ruth Bernhard mi sta aspettando per l’intervista che ho cercato di organizzare da ottobre, quando è uscita la prima edizione del suo libro fotografico “The Eternal Body” dove le sue eteree e radiose immagini dedicate al corpo femminile hanno vinto il prestigioso premio Friends of Photography fondato da Ansel Adams nel 1967 per promuovere la fotografia come arte. Mi guardo intorno e il mondo brulica di sorprese e anche il cielo e le nuvole, di un grigio gelido e tagliente, mi intrigano e così mi frullano per la testa le parole di Ruth: “Il terreno su cui camminiamo, le piante e le creature, le nuvole in alto che si dissolvono costantemente in nuove formazioni – ogni cosa è un dono della natura che possiede la propria energia radiante, legata insieme dall’armonia cosmica.”
Ruth Bernhard festeggerà alla grande perché il 1987 sarà il trionfo della sua arte e di questa pubblicazione che sono sicura diverrà un cult per i fotografi di tutto il mondo: 50 immagini in bianco e nero di nudi femminili, dagli anni ’30 ai ’70, che focalizzano il rapporto della forma femminile in armonia con l’universo. Già il titolo “The Eternal Body” ha il dono sublime di affascinarci e avvicinarci al corpo della donna con la consapevolezza di onorare la sua bellezza eterna. Cinquanta capolavori di una perfezione classica e senza tempo che esaltano la donna, con giochi sapienti di luci e ombre sfumate, in immagini di una sensualità raffinata dove le linee trascendono l’appartenenza ai corpi ma divengono altre linee eternizzate in altri significati. Quaranta’anni di ricerca racchiusi in questa monografia che può esser considerata la quintessenza della purezza delle forme. Come è nato il libro?
All’inizio degli anni ’80 ho cominciato a collaborare con Carol Williams, proprietaria della Photography West Gallery a Carmel, in California. Ricordo che ridevamo di gusto – e lei si divertiva un mondo e mi prendeva in giro – quando le dicevo che molto probabilmente sarebbe stato pubblicato un libro sulle mie immagini solo dopo la mia morte ma a me sarebbe piaciuto pubblicare quando ero ancora in vita, per godermi il meritato successo! In cuor mio ci speravo tanto e allora è iniziata la non facile ricerca dell’editore – girava la voce che solo Ansel Adams poteva vendere libri di fotografia in bianco e nero… – e raccolsi i fondi necessari per la pubblicazione vendendo cinque stampe in edizione limitata. Ho pubblicato con David Gray Gardner di Gardner Lithograph, l’editore dei libri di Adams, e la monografia ha vinto il premio che ha citato, un successo davvero insperato che mi ha già procurato molti riconoscimenti, compreso l’apprezzamento di Ansel che mi considera la fotografa di nudo più raffinata! Diciamo che quel primo corpo nudo raggomitolato dentro una grande ciotola di metallo, che avevo realizzato nel 1934 per il catalogo della mostra “Machine Art” al MoMa, e l’incontro casuale con Edward Weston nel ‘35 sulla spiaggia di Santa Monica in California dove mi ero trasferita, sono stati forse i fatti determinanti per le mie successive scelte artistiche.
Ruth lei è nata a Berlino, dove ha studiato all’Accademia di Belle Arti, e nel 1927 ha raggiunto a New York suo padre Lucian Bernhard – il famoso graphic designer noto per i suoi poster ma soprattutto per i caratteri tipografici che portano il suo nome – e ha iniziato a lavorare come assistente in camera oscura di Ralph Steiner, il fotografo documentarista e regista d’avanguardia. Si narra che abbia acquistato la sua macchina fotografica, una 8×10, con i soldi della liquidazione di quel suo primo lavoro. Dal 1930 al 1935 ha lavorato come freelance nella moda per The New York Times, Advertising Art, Macy’s e Sloane’s, tra gli altri. Nel ’35 è diventata cittadina americana e ha incontrato il grande Edward Weston, un incontro casuale ma che ha avuto una profonda influenza su di lei. Tra i più importanti fotografi del ‘900, rinomato per le sue immagini flou, per la sua ricerca di perfezione tecnica e stilistica e per la convinzione che era importante “visualizzare la foto dentro di sé prima ancora di scattarla” Edward ha colpito nel segno: ha intravisto subito in lei la discepola ideale, prefigurando il suo successo. Ruth sono curiosa, mi parli di quell’incontro così emozionante.
Edward aveva 49 anni ed era un fotografo già affermato, io avevo 30 anni ed ero una perfetta sconosciuta, alla ricerca di una mia dimensione artistica, un mio stile ed una mia identità, non solo fotografica. Non ero preparata a quell’incontro fatale ma la parte sorprendente della vita sono gli imprevisti, i momenti inaspettati che trasformano la tua esistenza in un attimo, come uno scatto fotografico a volte può cambiare il tuo futuro, il tuo destino. Penso a tante immagini di fotografi che sono diventati famosi grazie alla casualità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Io amo sempre aggiungere “con la luce giusta”. Edward era un ciclone, un vortice di passione e professionalità, potrei dire quasi maniacale per la cura dell’immagine sempre legata, però, alla ricerca dell’essenza stessa delle cose del mondo, una ricerca dentro la vita, dentro gli elementi della natura che – con i suoi primi piani di peperoni, cavoli, cipressi, rocce, i cieli e le nuvole, i nudi incompleti – ha portato il mondo fotografico a coniare la definizione “purismo westoniano”. Edward è stato perennemente “controcorrente”, mai adagiato ai privilegi della fama e della notorietà, un ricercatore convinto che ha posto la natura al centro della sua vita, purezza e verità lontane dagli intrighi del vivere quotidiano. Una grande e fondamentale lezione per me ma anche per gli americani che hanno sentito in lui la verità di emozioni universali, la fotografia come poesia e la poesia della fotografia. Forse è significativo che questo nostro incontro sia avvenuto in spiaggia, accanto al mare che nascondeva un po’ le nostre parole, accanto a quella natura che Edward amava tanto e che ha sublimato nelle immagini di tutta una vita. Lui mi ha “insegnato” a vedere le cose.
“Guardo oggetti ordinari e vedo cose che le altre persone non vedono. Ecco perché sono una fotografa.” Questa frase mi ha colpito molto perché sintetizza in poche, chiare, significative parole il suo vedere, il suo “stato di grazia” quando si avvicina a quel “qualcosa” da fotografare – che siano conchiglie, uova, piume o corpi di donne – riportando alla luce l’essenza della materia, lo spirito che anima il tutto come la bellezza delle piccole cose che si nascondono agli occchi di chi non sa guardarle, di chi non sa amarle. Sto pensando alla sua opera del 1930 Lifesavers dove le rinomate mentine statunitensi a forma di salvagente rotolano su di una superfice piana ma divengono “altro” e, snaturalizzandosi, disegnano una composizione astratta illuminata da una luce che definirei bauhausiana. Notata da M. Fehmy Agha, allora art director di Vogue, la foto venne poi pubblicata su Advertising Art Magazine e così iniziarono i suoi lavori per la pubblicità e il design industriale.
Credo di potermi definire una fotografa che ama molto lavorare in studio progettando, a volte anche per giorni, una composizione; cerco la luce ideale che, grazie ad una certa angolazione, conferisce alle forme la pienezza scultorea. Penso alle mie prime immagini divenute poi famose, a Doll’s Head del ‘36 quasi un mio prototipo di fotografia surrealista o a Two Forms del ’62 dove la pelle chiara e scura delle due donne si fondono in un abbraccio e i due corpi diventano un corpo unico. Suggellando il tema dell’amore tra due donne, considero questa immagine quasi un simbolo per la comunità lesbica. Tanti amici fotografi hanno illuminato la mia carriera aggiungendo sempre qualche cosa alla mia ricerca, da Ansel Adams ad Edward Weston e Wynn Bullock, Imogen Cunningham, Dorothea Lange, Minor White. Nel ’39 sono tornata a New York e ho conosciuto Alfred Stieglitz, un altro incontro importante della mia vita. Un fotografo appassionato a cui si deve la nascita della cosidetta “fotografia artistica” ma anche un gallerista e un editore che ha rappresentato un punto fondamentale di contatto tra gli artisti americani e le avanguardie europee. Alfred ha organizzato molte mostre per me e devo a lui l’inizio della mia notorietà nel mondo fotografico.
La sua popolarità è iniziata ad aumentare negli anni ’70 con una serie di riconoscimenti prestigiosi. Le sue immagini hanno iniziato ad essere presenti nelle collezioni permanenti sia del San Francisco Museum of Modern Art che del Metropolitan Museum of Art di New York e nei primi anni ’80 ha iniziato a collaborare con Joe Folberg e la sua Vision Gallery al 1155 di Mission Street a San Francisco, considerata una delle più famose della California. Nel 1981 è stata inserita nel Women’s Caucus for Art, l’organizzazione con sede a New York che supporta le donne artiste e nel 1984 ha collaborato con il regista Robert Burrill al suo film autobiografico intitolato “Illuminations: Ruth Bernhard, Photographer” che ho guardato da poco scoprendo tanti altri dettagli interessanti della sua vita artistica e poi ho sfogliato “The Gift of the Commonplace”, il suo portfolio di 10 fotografie dedicate alla memoria di Edward Weston. Incredibile come poche immagini possano raccontare tanto della sua arte. Volevo chiederle se ha una fotografia a cui si sente particolarmente legata. Esiste la sua fotografia preferita?
Ho dedicato quelle immagini al caro amico Edward avendo sempre dinnanzi agli occhi la sua figura su quella spiaggia ventosa che gli scarmigliava i capelli e nelle orecchie i suoi suggerimenti, e quelli degli altri fotografi tra cui anche Adams, che avevano fondato il “ Gruppo f/64” nel 1932. Mai nome fu più azzeccato, perché indicava il valore in cui il diaframma forniva la migliore profondità di campo! La fotografia a cui sono più legata è “In the Box, Horizontal”, la mia preferita, divenuta la copertina di “The Eternal Body”. Ricordo quando l’ho pensata, progettata, scattata, stampata e anche se è passato tanto tempo da quel 1962 ancora oggi mi coinvolge emotivamente. Sono riuscita a realizzare quello che avevo immaginato. Un bianco e nero sfumato in grigi delicati che avvolge le linee morbide del corpo di una donna dalla nudità di poetica bellezza in contrasto con la rigida geometria di quella scatola, che diviene prigione fisica e mentale.
“In the Box, Horizontal” fa già parte della Storia della Fotografia. Ora Ruth mi aggiorni sui suoi progetti. Ci potrebbe essere anche un mio ritratto firmato Ruth Bernhard in un futuro magari non tanto lontano? Certamente, con piacere ma ora devo seguire il progetto della mostra nella galleria di Joe Folberg e organizzare i workshop con gli studenti di un liceo, realizzare alcuni lavori che mi hanno commissionato e poi naturalmente le lezioni all’università. Stavo scordando l’inaugurazione di una nuova galleria interessata alle mie fotografie, forse mi organizzerà una mostra e poi ho promesso a Joe che gli dedicherò un ritratto e… posso offrirle solo un caffè, per ora?
Illuminations: Ruth Bernhard, Photographer di Robert Burrill