Se siete disposti a pagare per un museo che non espone nulla, allora il Teshima Art Museum soddisferà le vostre aspettative. Non fosse per il miracolo architettonico che genera, in pochi sarebbero disposti a raggiungere la modesta isola di Teshima, nel mare interno di Seto in Giappone, per visitare una creazione tanto singolare quanto inaspettata. Dalla boscaglia e dalle risaie da poco ristabilite dal progetto di recupero che ha coinvolto diverse isole del Mare Interno, spunta la sagoma enigmatica di un corpo architettonico flessuoso e indefinito, una figura gonfia come una goccia solidificata in un avvallamento del paesaggio.
Il percorso di approccio al museo non fa che rafforzare l’aspettativa e la carica dell’avvicinamento: da una biglietteria interrata sul fianco di una collina, il visitatore è guidato da un nastro in cemento bianco serpeggiante tra gli alberi, che lascia solo intravedere la sagoma dell’edificio senza lambirlo, ma anzi superandolo e puntando verso un aggiramento circolare lungo un piccolo promontorio posto di fronte al mare. Unico elemento di arredo, una panchina scruta l’orizzonte verso Kagawa. Viene il sospetto che nelle intenzioni di Ryue Nishizawa, l’architetto dell’opera e cofondatore, con Kazuyo Sejima, dello studio giapponese SANAA, il museo potrebbe quasi concludersi qui, striscia di cemento tra il mare e il bosco, essenziale quanto senza corpo, ma la soluzione proposta è più potente e decisa.
Aggirata l’ultima curva, ci si trova davanti un imbuto, un’apertura che riduce la densità dell’architettura e la riporta a una scala intima, ideale per l’approccio di uno spazio che appare effettivamente vuoto. È sgusciando finalmente all’interno che il mistero di questo strano oggetto, solo intravisto e prima mai compreso, si offre e si fa al contempo più fitto: la sottile membrana in calcestruzzo con i suoi due buchi in copertura è l’unico elemento tangibile dello spazio. Spessa solamente 250 mm, la soletta cresce dal suolo per raggiungere un’altezza massima di 4,5 m, con una luce libera di quasi 60 sul diametro più lungo. Ma è tale lo spiazzamento prodotto da una forma di cui non si concepisce confine e direzione, che l’abilità tecnica passa in secondo piano, persa tra la superficie confusa e malleabile di un interno curvo e senza soluzione di continuità.
Nel museo del nulla, i visitatori sono invitati a togliersi le scarpe e a restare in osservazione dell’unica cosa che si può trovare anche fuori dal museo: il paesaggio che fluisce dai due oculi sulla superficie, l’aria, la luce, l’acqua, gli uccelli e il vento risaltano nel grande ventre intimo dell’architettura. Il museo funge da cassa di risonanza per l’ambiente esterno e paesaggio, arte e architettura diventano una cosa sola. Stordito dalla semplice profondità della struttura, il visitatore si abitua con calma all’estremo senso di quiete e vi si abbandona, rilassandosi sulla superficie fresca del cemento bianco.
Appesi agli estremi di ciascuna apertura, due fili, corde divelte di questo strano strumento che è l’edificio, pendono verso il basso, accarezzati docilmente dal vento che li fa muovere di una danza flessuosa e muta. Non è un’esperienza mistica ma uno spazio dei sensi, in cui riscoprire le nostre facoltà e riappropriarsi dei fenomeni naturali ormai scontati. È solo a questo punto che ci si accorge dell’unica opera d’arte dichiaratamente tale, Matrix, un’installazione dell’artista giapponese Rei Naito: da minuscoli fori nel pavimento sgorgano a intervalli irregolari poche gocce d’acqua che danzano sulla superficie liscia in un infinito gioco di espansioni e separazioni che coinvolge l’acqua piovana che penetra dalle aperture. L’occhio segue la goccia formarsi, legarsi ad altre e poi ancora perdersi, tendendo verso le inclinazioni leggere del piano di appoggio dell’architettura e aspirando alle pozze più ampie. Forse a questo punto anche i piu’ scettici possono valutare se non sia forse valsa la pena visitare un museo che non offre mai la stessa opera alla vista ma una combinazione di fattori in perenne mutamento.
Il progetto rientra nell’ambito di un piano di recupero più vasto, che mira a rivitalizzare attraverso l’arte e l’architettura l’intero contesto delle isole del Mare di Seto, attraverso la Naoshima Fukutake Art Museum Foundation e la Benesse Corporation, già committenti di opere dello stesso studio SANAA, come di Tadao Ando. Nishizawa va però in una direzione ancora più caratteristica e forse contemporanea: è una nuova concezione di museo e ancora di architettura, un museo come spazio della concentrazione più che della contemplazione, un edificio-specchio dove più che sulle opere del passato, affastellate e ricoperte di polvere, si getta luce su sé stessi e sui fenomeni naturali quasi scontati.
Forse non serve andare in Giappone, a qualche ora di treno da Tokyo, per imbarcarsi verso queste isole e scoprire ciò che possiamo vedere ogni giorno. Certo è che il Teshima Art Museum evoca un’esperienza e manifesta la capacità dell’architettura di farci sorprendere del mondo, di cui, forse, sentiamo ancora il bisogno.