Cosa succede quando la scultura classica, passata alla storia come massima espressione della cultura greca per la perfezione della tecnica e della rappresentazione sublimata dell’uomo, viene deformata e schiacciata nelle due dimensioni? Se l’armonia visiva a cui quell’arte aspirava e che metteva in pratica perde ogni potere, che cosa rimane? Oppure, cosa diventa?
Una ricerca cominciata per supportare il lavoro di dottorato si è trasformata in un progetto autonomo: trovando riprodotte nei libri, poco aggiornati anche graficamente, sempre le stesse statue dell’antichità classica, Ewa Doroszenko ha iniziato a confezionare alcune immagini, molto diverse da quelle proposte, per accompagnare e arricchire la propria discussione.
Artista e dottore in Belle Arti, Ewa ha cominciato a interrogarsi sulla statua come oggetto e non più come figura umana, per quanto perfetta: scomponendola in parti e dettagli, a loro volta distorti, compressi o capovolti, e integrandola in contesti lontanissimi da quelli originali, complicava sempre di più il riconoscimento e la decifrazione del soggetto. Spiega, infatti, che il progetto fotografico The Promise of Sublime Words (2016) ha dato vita, riutilizzando materiale esistente e di grande pregio per la storia dell’arte, a «giustapposizioni che non hanno quasi nulla più in comune con la natura e il proposito delle opere su cui ho lavorato».
È ancora arte classica, ma non lo è più. È qualcosa di nuovo ed è perfetto se non sappiamo definirlo: in fin dei conti è (e rimane) una «promessa».
La maggior parte dei lavori di Ewa Doroszenko si comporta così, combinando diverse caratteristiche di diverse discipline o modi di fare arte. Dalla fotografia al disegno, dalla pittura all’installazione, le commistioni creano cortocircuiti e interrogativi, mentre il filo conduttore rimane la cura al più piccolo dettaglio.