Matteo Mauro è un artista e designer siciliano che dal 2010 vive a Londra. Qui ha studiato architettura e, grazie agli insegnamenti universitari, si è avvicinato alle nuove tecniche digitali di rappresentazione alle quali si è appassionato ed affezionato fino a far diventare il computer uno strumento d’espressione artistica.
Vista la particolarità delle sue opere abbiamo deciso di fargli qualche domanda per conoscere meglio lui, il suo mondo ed il suo ultimo lavoro Micromegalic Inscriptions.
Cosa ci fa un artista siciliano a Londra? Cosa ti ha spinto ad avvicinarti all’arte digitale? Quanto la capitale britannica contagia la tua opera artistica?
Quando ho lasciato l’Italia, volevo temporaneamente distaccarmi dall’establishment artistico ed architettonico italiano. Superbo, ma forse poco fertile per la sua austerità. L’obiettivo era quello di scoprire un nuovo ground dove poter sperimentare, facendo tesoro dei canoni classici indiscussi dell’arte italiana. L’obiettivo era di riproporli in chiave rivisitata in un movimento progressivo e d’avanguardia internazionale. In questo percorso, una babylon town come Londra ha sicuramente superato le mie aspettative. I nuovi investimenti finanziari che seguirono al periodo del crollo economico della capitale britannica, hanno attirato molti investitori che hanno accelerato il processo di evoluzione urbana e culturale della città.
Come avete accennato, sono di origine siciliana. La Sicilia è una terra di migranti, che trova le proprie radici in diverse culture mediterranee, nonché nord-europee. Eppure, è un luogo che soffre, decade, che vive nella rigogliosità del passato. È un luogo dove il moderno non riesce a sbocciare. In un simile contesto il sogno difficilmente diventa realtà. In Inghilterra, come in altri Paesi dove ho vissuto, ho conosciuto il rispetto e l’elogio della creatività libera, trasgressiva, ma profondamente radicata nella storia del Continente. Le mie opere sono intinte in questi mari.
Il mondo dell’arte digitale è poco conosciuto ai più: ti va di raccontarci come nasce una tua opera? Che processi segui e che programmi utilizzi per realizzarne una? Per il progetto Micromegalic Inscriptions hai prodotto una serie di incisioni computerizzate sotto la guida di Oliver Domeisen (ex curatore del Victoria and Albert Museum di Londra). Ci potresti raccontare quest’esperienza? Quanto è stata importante la presenza di Domeisen? Perché hai deciso di focalizzare il tuo lavoro sulle incisioni rococò di Wilhelm Kolbe e che tipo di interazioni hai creato con esse?
I dispositivi principali che utilizzo sono programmi di modellazione low-poly e di sculpting con “argilla digitale”. A questi si aggiunge un processo generativo che è basato su codici in linguaggio Java, misto a tecniche di intaglio analogico.
Le Micromegalic Inscriptions, Inscrizioni Micromegaliche, sono incisioni digitali che evolvono la tecnica dell’intaglio tradizionale. Queste creazioni, che si collocano nel campo dell’Arte Generativa, non solo reinterpretano i processi meccanici dell’incisione tradizionale, ma, essendo riproducibili infinitamente, esemplificano l’evoluzione delle pratiche di produzione di massa e l’inevitabile simbiosi tra l’uomo e la macchina.
La mia ricerca inizia con uno studio microscopico e storico di acqueforti rococò, in cui motivi Rocaille, fatti di curve sinuose, compongono scene di architettura “fantasy”. Le opere presenti in questo articolo reinterpretano l’acquaforte I Too Was in Arcadia di Wilhelm Kolbe. Queste stampe fanno parte della collezione permanente del British Museum.
Avere al mio fianco un dotto come Oliver Domeisen ha reso il processo creativo estremamente solido ed inespugnabile. La sua conoscenza delle tecniche di stampa e degli stili d’arte, dai classici al digitale, è stata fondamentale ai fini di una ricerca dalle radici profonde. Oliver è un’artista raro, tra gli ultimi esperti di ornamento, grande conoscitore della storia dell’arte e dell’architettura. Ricordiamo che egli ha fatto parte dei pionieri della creatività digitale anni ’90 sin dall’inizio della sua carriera, quando, al fianco di Zaha Hadid, progettò il museo MAXXI di Roma. Recentemente, grazie al suo supporto, ho realizzato un libro sulla mia ricerca, che verrà pubblicato in Inghilterra dal titolo Micromegalic Inscriptions.
Il tuo lavoro su Kolbe ha aperto un filone di ricerca sulle incisioni ed il Rococò o pensi che sia solo una parentesi e che i tuoi prossimi lavori si focalizzeranno su altre epoche, tecniche, artisti ed opere?
Intendo continuare questo processo di ricerca. Il Rococò è stato uno stile dalla vita breve che ci ha regalato alcune tra le opere più trasgressive della storia dell’arte. Uno stile che si è diffuso insieme all’imporsi della stampa ad intaglio, diventando così il primo tra gli stili della Globalizzazione. Nel mio caso la tecnica classica viene ripresa: tecnicamente i pixel in moto diventano le linee di intaglio sulla placca digitale. Il conflitto tra questi atomi dinamici diventa o giunzione o repulsione. Dalla simulazione, l’immagine stampata cattura questo senso di dinamicità, tipico dello stile Rococò dal quale deriva. Di queste creazioni, va apprezzata la tensione tra il processo sistematico di formazione ed il suo potenziale di generare disordine organico, nel caos di innumerevoli linee in empatia ed astrazione.
Le prossime serie andranno, invece, ad esplorare le acqueforti dell’artista italiano Giovanni Battista Piranesi. Successivamente, queste tecniche saranno applicate a stili successivi al Rococò ed a diverse tecniche di pittura.
Considerando il genere artistico a cui ti sei appassionato, credo sia lecita una domanda sul tuo rapporto con l’opera d’arte e soprattutto con il mezzo che usi per fare dell’arte: non pensi che nel tuo lavoro il connubio uomo-computer rischi di rendere l’opera d’arte autonoma rispetto all’atto creativo?
Tutte le nuove tecnologie nel corso della storia hanno esteso la pratica e la visione di artisti e designer attraverso processi di percezione e riflessione. I sistemi generativi utilizzati per creare queste opere possono essere considerati meccanismi casuali di creazione che ricorrono eccessivamente a strumenti di calcolo digitale. Tuttavia, l’idea di un’arte casuale e autonoma, che quasi cancella il ruolo dell’artista, può essere discutibile in prima istanza perché i computer sono macchine dipendenti, che funzionano solo se sono programmate. Citando Celestino Soddu: “L’Arte Generativa non è una tecnologia, non è solo uno strumento informatico, ma è un modo per pensare al mondo possibile, un modo per vivere la propria creatività”. I computer non hanno inventato le regole di complessità, asimmetria e curvilineità che sono state applicate negli esempi qui presentati. Infatti, il “computerizzare” non è legato alla macchina computer, ma è un’azione umana. “Computer” storicamente si riferisce ad una persona che sarebbe stata impiegata per eseguire i calcoli. Oggi i computer sono macchine digitali che ci aiutano a gestire l’azione di calcolo.
In un processo generativo, sia l’artista-coder che il computer riconoscono gli effetti delle istruzioni. L’artista conosce il suo intento e la teoria per comunicarlo attraverso il linguaggio di programmazione e prevede i risultati che la macchina è in grado di reinterpretare e trasformare in opere visuali.
Questi processi richiedono, come per l’arte prodotta analogicamente, una profonda comprensione del mezzo d’arte. Piuttosto che glorificare od essere allarmati da queste tecnologie emergenti, penso sia più produttivo discuterne l’intima relazione tra l’artista digitale ed il linguaggio di programmazione, tra l’uomo e la macchina, e le somiglianze e differenze con i precedenti storici.
Infine quale credi che sia il ruolo dell’artista nel mondo dell’arte digitale?
Penso che storicamente il ruolo dell’artista sia cambiato soprattutto in forza dello stato sociale ed economico piuttosto che a causa dei nuovi mezzi di produzione artistica. Il ruolo dell’artista contemporaneo è sicuramente diverso da quello dell’artista rinascimentale. Non tanto per i principi creativi ma per il suo legame con il mercato dell’arte. I mezzi-strumenti, invece, sono nuovi e lo saranno continuamente, offrendoci sempre nuovi orizzonti nel cammino dell’espressione artistica. In qualsiasi processo artistico esiste un’inevitabile interdipendenza tra lo strumento o macchina e l’uomo, che mira ad un equilibrio tra il controllo e la creatività.
Nel caso dell’arte digitale l’artista è ancora incaricato della pianificazione concettuale e tecnica del lavoro ed è solo la conversione del codice ad essere effettuata con mezzi digitali. Inoltre, la macchina, incapace di giudicare esteticamente, non rileva errori visivi ma solo tecnici che, in ogni caso, non è in grado di riparare autonomamente.
Nelle mie opere, la mia funzione d’artista si sposta dal creare l’opera d’arte al creare un sistema capace di generarla. Delle incisioni tradizionali perdo il piacevole esercizio pratico, l’arte del mestiere che William Morris, forse giustamente, descrive come fonte di felicità. Invece, nell’arte digitale, a tale abilità manuale si sostituisce l’abilità di controllare la macchina. Lo strumento di intaglio diventa un pixel istruito a muoversi, a lasciare una scia di colore.
D’altro canto gli strumenti dell’incisione digitale non vengono tenuti in un laboratorio privato, ma sono open source, accessibili a chiunque decida di intraprendere questo viaggio creativo. Forse una democratizzazione digitale del mezzo d’arte, che progredendo perde e guadagna libertà.