Un bouquet destrutturato sotto forma di tavolino-vaso di cristallo, un’esile seduta che sembra quasi un foglio di pelle elegantemente piegato sul pavimento, tavolini scomponibili o con piani supplementari rotanti: sono alcuni degli esemplari di Linescapes, la prima collezione personale del giovane e promettente designer milanese Guglielmo Poletti.
Lo abbiamo intervistato per approfondire con lui aspetti del suo modus operandi e della sua linea, che ha avuto modo di presentare al pubblico durante l’ultimo Salone del Mobile.
Innanzitutto, nella bio sul tuo sito si legge che ti sei laureato in “art management”: un percorso accademico non proprio canonico rispetto a quanti intraprendono il mestiere di progettista. Puoi spiegarci di più circa la tua formazione universitaria e il tuo primo approccio al design?
Vero. Provengo da una famiglia che da due generazioni ha fatto dell’arte la propria passione, ancora prima che il proprio mestiere, collezionando opere del XVI e XVII secolo, con qualche parentesi sul ‘900, mentre mio nonno era artista e pittore. Terminato il liceo, dopo un periodo di grande disorientamento, ho fatto un’esperienza presso uno studio di restauro a Milano, per scegliere poi un percorso di studi che mi permettesse di mantenere un piede all’interno della professione di casa, laureandomi appunto in Art Management. Nel corso dei tre anni ho iniziato però a sentire il bisogno di andare oltre alla teoria, attraverso una disciplina che differisse dall’arte pura, ma che potesse trarre vantaggio dalle contaminazioni con essa. Dopo aver frequentato un corso teorico sul design tenuto da Philippe Daverio, ho capito che quello sarebbe stato il mezzo con cui avrei veicolato il mio sentire. Non è stato semplice, dopo la laurea ho brancolato spesso nel buio e ho dovuto costruirmi un po’ da autodidatta, prima di iscrivermi allo Ied di Milano per un master in design. Oggi sono felice di aver percorso un cammino alternativo, perché, per quanto difficile, è grazie ad esso se ho qualcosa da raccontare.
Oggi continuiamo ad assistere ad un vivo dibattito sul rapporto tra creazione e rappresentazione a mano o al computer.
Quanto incide il tipo di rappresentazione nell’elaborazione del tuo progetto? Hai imparato ad usare dei software già durante il periodo universitario o successivamente?
Anche se esistono molte scuole di pensiero che vogliono imporre il proprio ‘metodo’, uno degli aspetti che amo di più del design è la molteplicità di approcci alla progettazione. Si può fare design senza mai affidarsi ai programmi ma solo alla pancia e alla sperimentazione, come ad esempio fanno i fratelli Campana o alcuni designer di scuola olandese, oppure si può basare la propria progettazione quasi esclusivamente sul computer.
Per quanto mi riguarda ho dovuto colmare parte delle mie mancanze in materia di software dopo il periodo dell’università, e tuttora non mi considero di certo completo. Non credo esista una vera metodologia, ma è necessario sfruttare diversi strumenti per raggiungere il risultato finale. Trovo fondamentale il dialogo con artigiani e ingegneri che compensano certe mie lacune tecniche, così come le contaminazioni con l’arte contemporanea da cui nascono le storie che accompagnano i miei progetti.
L’atto creativo è un processo che hai maturato in maniera del tutto spontanea, innata, o un’esigenza che hai sentito il bisogno di affrontare da un punto di vista più tecnico per poter riuscire ad acquisire la capacità di immaginare un prodotto di design? Ci parli brevemente delle esperienze cruciali che hanno caratterizzato la tua formazione post-laurea e quali di queste ritieni che ti abbiano arricchito di più al fine di sviluppare quest’azione creativa?
Penso che il progettista classico senta sempre il bisogno di partire dal punto di vista tecnico e funzionale, ma nel mio caso l’atto creativo è un processo molto spontaneo, più poetico che tecnico: una valvola di sfogo per alcune mie tensioni emotive profonde, un modo di raccontarmi attraverso ciò che creo. Questo ‘romanticismo’ è ciò che mi permette di sognare ed evadere dalla realtà alla ricerca di una maggiore leggerezza. Tutta la parte tecnica subentra in un secondo momento, come passaggio necessario per trascinare la mia idea nel mondo reale.
Per quanto riguarda invece le mie esperienze cruciali, ne annovero due in particolare: la prima è il mio stage di 6 mesi presso lo studio milanese Lissoni Associati, dove ho potuto respirare un’aria di grandissima professionalità, conoscere parte delle dinamiche che regolano la relazione designer-azienda, imparare il più possibile da Piero Lissoni, maestro delle proporzioni e dell’eleganza della forma.
La seconda è la settimana di vacanza estiva dallo stage che ho trascorso in uno dei workshop organizzati da Vitra presso il Domaine de Boisbuchet, in Francia: qui ho trovato grande sintonia con l’insegnante del corso, il designer/artista israeliano Ron Gilad, con il quale mi sono potuto finalmente focalizzare sulla parte più concettuale del progetto e sul primo vero abbozzo di un mio linguaggio.
Ci sono degli artisti che maggiormente ispirano il tuo design? In che modo?
Credo molto nell’importanza di inserirsi nei varchi aperti dagli artisti, nella cui scia si trovano spesso spunti ed ispirazioni. A parte il movimento Dada, padre del gioco dell’arte contemporanea, tra i tanti ci sono sicuramente i grandi minimalisti e concettuali degli anni ’70, per il dialogo che si instaura tra le loro installazioni e lo spazio architettonico circostante. Mi piace poter pensare ad un oggetto di design che sia in grado di richiamare quella pulizia formale frutto di un grande lavoro a togliere o di un profondo momento riflessivo, alla fine del quale con un gesto minimo si arriva ad esprimere un grande concetto. Un altro artista a cui guardo con grande ammirazione è James Turrell, con i suoi esperimenti di luce che alterano la nostra percezione portandoci in mondi lontani e un po’ metafisici.
La tua prima collezione, Linescapes, che hai avuto modo di presentare al Salone Satellite durante la Milano Design Week 2014, presenta delle linee molto essenziali. Ritieni che questo stile sia espressione di una tua poetica o piuttosto parte di una fase di sperimentazione?
I pezzi che ho presentato al Salone Satellite lo scorso aprile sono nati ognuno in maniera molto autonoma, per poi raggrupparsi sotto il nome di Linescapes solamente in un secondo momento. Il file rouge del linguaggio che collega i prodotti della collezione si è tessuto senza che me ne rendessi propriamente conto. Ogni oggetto ha una sua storia personale. Di sicuro le linee essenziali sono un comune denominatore: anche se mi trovo – e forse mi troverò sempre – in una fase di sperimentazione, credo che sia una prima espressione di una poetica che va in questa direzione.
I prodotti di Linescapes nascondono delicati elementi-sorpresa che sembrano voler invitare il fruitore a giocare con l’oggetto. Sono soluzioni a cui arrivi tramite considerazioni pratico-empiriche, attraverso la tua esperienza diretta con gli oggetti e lo spazio o il frutto di immagini astratte che cerchi di concretizzare in qualche modo?
Cerco sempre di indagare l’iter dei miei prodotti, sono interessato a capire da quali meandri della mia testa provengano, e questo mi aiuta a mettere insieme i tasselli che ne formano l’identità. Nel caso di Linescapes sono arrivato a queste soluzioni in diversi modi, ma mai tramite considerazioni eccessivamente empiriche. La mia esigenza è di andare oltre la pura forma. Di grande ispirazione sono stati i lavori dell’artista concettuale Fred Sandback, con le sue incredibili geometrie disegnate nello spazio come fossero dei tratti di china tirati con la squadra.
Esperienze particolari che sogni o sei in procinto di realizzare in futuro?
Conclusa la Design Week, dove ho ottenuto riscontri molto positivi, non mi sento ancora abbastanza definito e solido per poter intraprendere un cammino completamente autonomo. Ho deciso di andare avanti a costruire la mia cassetta degli attrezzi: anche se sono sempre in contatto con Ron Gilad e sarei entusiasta all’idea di fare un’esperienza di alcuni mesi presso il suo studio di Tel-Aviv, ho optato per completare la mia formazione prima a livello accademico. Sono stato ammesso alla Design Academy di Eindhoven, dove comincerò il master in Contextual Design ad agosto. Sono convinto di avere ancora moltissime cose da scoprire prima di trovare una vera e propria identità.