di Valeria Dilauro
“Soleva anche dire che nella vita assolutamente
nessun successo è ottenibile senza strenuo esercizio.”
Diogene Laerzio
Se come sostenuto da Anselmi, il disegno è come il vino, deve macerare e riposare nella mente, quale può essere il ruolo assunto oggi dal disegno, nell’era dell’informatizzazione e digitalizzazione di quello che era invece un esercizio prettamente materico, inteso quale strumento intellettuale ed interpretativo, ma anche quale strumento di ricerca e di conoscenza, nonché di indagine?
La sacralità del tracciare, del disegnare, ha subito una lunghissima serie di trasformazioni nei secoli, alcune delle quali anche radicali ed irreversibili, ma è ancora possibile aspirare a quella utopica coincidenza tra progetto e rappresentazione?
La ricerca compositiva ed il processo progettuale si dipanano sostanzialmente attraverso tre azioni strettamente interconnesse ed intrecciate tra loro: l’invenzione, l’indagine e la rappresentazione, la cui matrice comune è da ricercarsi negli strumenti grafici, e dunque nel disegno.
Il progetto è allora disegno, ma al contempo è il disegno stesso a costituire la forma vitale del pensiero compositivo, in quanto l’idea astratta, frutto del processo creativo, si definisce e assume concretezza attraverso la rappresentazione grafica; infatti “il disegno di architettura è proprio il luogo nel quale il pensiero formale si rende manifesto, è quindi il luogo esclusivo della sua esistenza” (Purini-2007). Il disegno manifesta così la coscienza critica del progettista e, attraverso un linguaggio fatto di segni, ne materializza l’idea spaziale, facendosi mezzo espressivo e dando esistenza autonoma a quelle che sono le intuizioni o intenzioni formali, consentendo inoltre il controllo, nonché il confronto, del processo di trasformazione dello spazio; “l’espressione stessa «disegno di architettura» […] definisce sia il disegno di un architetto sia la rappresentazione architettonica. In altri termini, essa può essere definita dal suo contenuto o dall’identità del suo autore” (Recht-2001). In tal senso la ricerca espressiva, dunque compositiva, non si esauriscono con il progetto, ma si protraggono nella sua rappresentazione, che diviene così strumento di ideazione, ma anche di elaborazione e studio delle forme; è allora sul disegno, testimonianza del processo di ideazione, trasformazione o adattamento dell’idea, che molte architetture non realizzate o andate perse basano la loro “esistenza”.
Nel suo esplicitare le speculazioni della mente, il disegno si fa inoltre riflesso immediato dell’immaginazione e strumento del pensiero e del fare progettuale, ma al contempo, nel suo divenire, documenta quello che Giovanni Michelucci ha definito “coefficiente di irrealizzabilità”, ossia quello scarto tra “ciò che si sarebbe voluto fare e ciò che si è potuto fare”.
“Il disegno è pensiero esso stesso, […] è la forma-pensiero fondamentale dell’architetto, il luogo elettivo nel quale la forma appare […]. Leon Battista Alberti scrive nel suo trattato che l’architettura è disegno e costruzione” (Purini-2007), concependo inoltre il disegno con il punto d’incontro tra l’architettura stessa e la matematica, ma il disegno in qualità di linguaggio espressivo della realtà formale si compone allora di segni simbolici con significati convenzionali, ed in quanto tale, così come avviene per ogni forma di linguaggio, la sua grammatica ed i suoi vocaboli sono assoggettati al concetto di evoluzione, pur restandone però immutati e riconoscibili le radici semantiche.
L’evoluzione del disegno e dei suoi codici è documentata da una serie di modi della rappresentazione frutto di epoche e dunque di norme differenti, alcune delle quali legate all’evolversi del gusto formale che, in un certo qual modo, ne hanno inevitabilmente anche influenzato gli esiti progettuali.
La ricerca progettuale, e così la composizione architettonica, non sono gli unici strumenti e processi di trasformazione e indagine dello spazio che ci circonda: in questa ottica il disegno si fa strumento di ricerca e conoscenza nelle fasi di studio dell’esistente, passando attraverso il rilievo.
Il disegno, come strumento di conoscenza delle forme, ma anche dello spazio entro cui queste si sviluppano, è il presupposto basilare e necessario, il cui fine ultimo è l’indagine dell’esistente e la prefigurazione di quello che ancora non c’è.
Il “disegno che è allora, nell’ordine, pensiero, comunicazione e memoria” (Purini-2007), diviene uno strumento irrinunciabile per e del progetto, in quanto strumento estremamente duttile, in grado di adattarsi alle diverse necessità e ai diversi usi per cui è adoperato.
La centralità del disegno, allora, quale luogo natio della forma, ma anche quale luogo del pensiero, quale atto pratico ma al contempo critico, quale sistema linguistico di interpretazione e comunicazione, diviene oggi una necessità per l’architettura, facendosi strumento per mezzo del quale è possibile stabilire le premesse e gli scenari del pensiero compositivo.
Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis historia, con riferimento al pittore Apelle scrisse ‘Nulla dies sine linea’, ma come allora il processo di scientifizzazione prima, e quello di digitalizzazione poi, hanno reso quasi profana quella gestualità del disegnare, quell’ “atto magico, sacro anzi, del tracciare” (Purini-2007)? La necessità di recuperare la centralità artistica nel progetto di architettura passa così per il disegno, quale forma primaria del pensiero, e per la geometria, quale strumento di indagine della forma.
Oggi la ricerca formale in ambito progettuale-compositivo sembra essere incapace di rinunciare al culto dell’immagine fine a sé stessa: qual è quindi il ruolo assunto dal disegno a mano dal momento che si dispone di una serie di strumenti di rappresentazione sostanzialmente incarnati nel disegno digitale che, al fine di perseguire la perfezione del segno, annullano quasi completamente la riconoscibilità della mano, producendo in ultima istanza una sorta di omologazione del risultato? Il disegno a mano, in quanto segno ed in quanto “interprete fedele, sicurissimo, evidente, del sentire dell’artista” (Basile–1882), quindi “mezzo di trasmissione del pensiero” (Basile–1882), basandosi sui concetti di astrazione e sintesi, espressione di un ragionamento cognitivo, può affiancare in qualche modo le moderne tecniche della rappresentazione, in una sorta di ibridazione, o forse integrazione, offrendo nuove possibilità al progetto? Il dualismo tra disegno manuale e disegno digitale, tra sacro e profano, tra unicità, originalità, autografia e ripetibilità, impersonalità, apografia può forse trovare risoluzione in quanto espresso da Vasari nel suo Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori: il disegno non nasce dalla mano, ma dalla testa, “procedendo dall’intelletto”, infatti, il disegno si fa “espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell’idea” (Vasari-1568).
“L’idea di disegno e quella di forma non sono pensabili oggi al di fuori delle nuove tecniche” (Purini-2007), ma questo comporta e forse continuerà inevitabilmente a comportare la tendenza a scomparire dell’“azione diretta del disegnare. Nel disegno manuale sono io che traccio una retta, dopo averlo deciso. In quello automatico la retta tracciata è il risultato di un’operazione di calcolo per qualche verso invisibile, senza legami apparenti con quella gestualità che è stata così importante nel disegno storico.” (Purini-2007)
L’avvento del disegno digitale ha certamente offerto al progetto nuove possibilità, prima fra tutte quella di controllo e gestione dello spazio, ma la rappresentazione bidimensionale, manuale, espressione di quella che Purini definisce “energia del segno architettonico”, rimane uno strumento fondamentale e necessario per la composizione e la ricerca formale, in quanto resta immutata l’efficacia comunicativa delle immagini intese quali modelli capace di trasporre lo spazio tridimensionale nella bidimensionalità del foglio, passando per la dimensione astratta della mente.
È allora forse possibile parlare di disegno integrato, come sostenuto da Luca Senatore, un disegno nel quale l’ibridazione di tecniche differenti, siano esse digitali o tradizionali, può condurre ad un nuovo e differente modo di comunicazione, un nuovo veicolo capace dunque di mescolare il disegno a mano con le elaborazioni digitali, in quello che parallelamente Gabriele Pierluisi definisce “digitale caldo”.Resta e resterà però immutata quella dignità della qualità del segno grafico, della manualità quale espressione diretta dell’immaginazione e del ragionamento che ha qualificato e reso riconoscibili nel tempo ora l’“architettura parlante” di Boullée e Ledoux, ora l’utopia di Sant’Elia, e ancora gli spazi onirici di Aldo Rossi, le architetture disegnate di Franco Purini, la chiara relazione tra teoria e prassi progettuale di Antonio Monestiroli, l’impermeabilità di Francesco Venezia, la fisicità di Alessandro Anselmi e così le riflessioni di Ugo La Pietra o di Enzo Mari, nell’ottica di quella riconoscibilità che i nuovi strumenti digitali sembrano allentare.