Torniamo negli anni ’30. Il jazz, gli alcolici proibiti, il sogno americano che vacilla; l’Europa delle dittature nascenti, della Torre Eiffel e dei caffè letterari diventa sempre più invitante. L’individualismo e l’insicurezza sono sentimenti che tutti, dai benestanti investitori di Wall Street agli immigrati appena scesi dalla nave, provano sulla loro pelle. Sentimenti che Ray K. Metzker, nato nel 1931 a Milwaukee, adotterà come strumenti di osservazione sociologica, durante tutte le uscite e le situazioni che possiamo definire di wandering fotografico dei nostri bontemponi.
Metzker si trova a dover fare i conti con una realtà pomposamente consumistica e appariscente, l’America che tutto il mondo ha sempre sognato come meta finale. Studente all’Institute of Design di Chicago, detto anche “New Bauhaus”, dal 1956 al 1959, egli prenderà parte ad un movimento ispirato a quello europeo prima citato, già avviato negli anni ’20 anche negli USA. Già dalle sue prime selezioni degli anni ’50-’60 si può notare l’impronta stilistica del nostro Ray, meno noto di Man Ray, ma non per questo meno abile. Anzi.
La fotografia di Metzker è caratterizzata da un’esasperazione del binomio cromatico, accentuando il focus sul contrasto e sui dettagli creati tra l’ombra dei grattacieli e la luce del sole. Tecniche come la sovrapposizione e la combinazione di più negativi gli permettono di oltrepassare i canoni tradizionali della carta stampata: i suoi celebri “multipli” sono infatti apprezzati in molte gallerie e musei di fotografia.
Di fotografi che si concentrano sulla città e i suoi abitanti, sull’elemento naturale e su quello industriale se ne incontrano regolarmente, specialmente (dis)grazie all’ausilio della rete. Per capire cosa rende uniche le sue immagini, però, tralasciando le molteplici onorificenze ottenute, il numero totale di esposizioni e di libri pubblicati, le lezioni tenute alla University of Arts di Philadelphia e quant’altro, vorrei segnalare la simpatica recensione dell’esposizione “AutoMagic” scritta da alcuni giornalisti del New Yorker, in fondo alla pagina dedicata della Laurence Miller Gallery .
Uno di quegli artisti mai stanchi, che l’America artistica l’hanno vissuta fino in fondo. Senza molti sentimentalismi o belle parole forse, ma sempre con le idee chiare, e una gran voglia di spaccare tutto a colpi di tecnica e qualità.