Verso la metà degli anni sessanta Lewis Baltz raccoglie una serie di fotografie raggruppandole sotto il nome di Prototypes. In queste immagini compaiono scenari urbani popolati da muri bianchi, finestre, automobili e case nelle quali non succede nulla. Nel suo lavoro Baltz si limita a registrare asetticamente il reale lasciando emergere dalle forme ordinarie dei luoghi la sensazione vivida che qualsiasi cosa nella sua concretezza sia del tutto vana.
Gli elementi delle fotografie sono privi di enfasi e svuotati di un’identità specifica. Ciò che seduce non è la vivacità dei colori o gli aspetti monumentali della scenografia ma la manifestazione di un ordine statico ridotto alla semplice presenza.
Per mezzo di un raffinato equilibrio tecnico, nei prototypes, Baltz coniuga le forme spaziali presenti nel paesaggio con le forme della sua personale ricerca stilistica. Il suo sguardo analitico, condotto attraverso le prospettive regolari e i tratti essenziali della fotografia minimalista, sospende gli oggetti in una dimensione originaria e impersonale. Nonostante l’aria rarefatta delle atmosfere, gli oggetti sulla scena sono figure fisiche vere e proprie, non mere rappresentazioni di cose e, sebbene la fotografia li tratti solo come segni del loro essere nel mondo, questi oggetti non rimandano a nessuna alterità diversa da loro stessi. Nelle fotografie di Lewis Baltz nessun mondo migliore ci aspetta al di là di quello che si mostra, non c’è nessun significato dietro i muri bianchi delle vie desolate e non troveremo nessun altro nero che non sia il nero di quelle finestre chiuse. Se Franco Fontana sosteneva che “il compito dell’arte è rendere visibile l’invisibile”, con Baltz il processo si ripiega su sé stesso. La sua fotografia non intende andare oltre a quello che appare e ci costringe a vedere quanto di solito escludiamo dalla nostra vista come privo di significato o banale. Il compito di Baltz è opposto e forse più arduo e paradossale rispetto a quello di Fontana. Baltz vuole rendere visibile il visibile.
Mediante questa ripetizione dell’identico dove la forma non vuole altro che se stessa, lo sguardo di Baltz fissa ininterrottamente la realtà quotidiana fino a far diventare un semplice muro bianco estraneo o extra-ordinario.
Il suo occhio raggiunge una posa talmente neutrale sulle cose da disorientare la nostra visione per condurci verso un’esperienza percettiva senza riferimenti. Il nulla strabordante presente nella concretezza degli elementi diventa il soggetto della fotografia sollevato dall’incarico di comunicare qualcosa che non sia la sua inconsistenza.
L’immagine a questo punto si fa talmente autonoma da volersi presentare come oggetto indipendente dall’osservatore. Si ha l’impressione che anche la soggettività particolare di Baltz si annulli nel vuoto generale della scena come se a scattare quelle foto fosse stato un unico grande occhio senza nome. Chi guarda gli oggetti prototipici di Baltz deve rinunciare alla volontà di imprimere un ordine personale alla sensazione perché l’immagine rifiuta di farsi coinvolgere e ci tiene a distanza.
Riconoscere semplicemente le figure esposte nella fotografia, meditando senza implicazioni su questa specie di grande e significativo nulla che è in fin dei conti il protagonista immanente della composizione, è l’unica cosa che possiamo fare.
Lewis Baltz era uno dei membri più rappresentativi del movimento dei “New Topographics”, un gruppo di artisti che si occupava di analizzare il rapporto tra l’uomo e la natura in contesti urbani, mediante la documentazione fotografica dell’intrusione industriale nel mondo.
I “New Topographics” fotografavano anche scene suburbane con motels, parcheggi, pompe di benzina, influenzando notevolmente artisti contemporanei come Andreas Gursky, Thomas Struth e Joel Sternfeld.
Attualmente Stephen Shore, l’unico dei “New Topographics” che lavora a colori, è uno dei pochi del gruppo ancora in vita.