I fenicotteri viaggiano di notte, si spostano in gruppo, compiendo lunghe traversate. Per gli induisti sono il simbolo dell’anima che migra dalle tenebre alla luce. Luce è speranza, buio è paura. La speranza è ciò che tiene in vita, che spinge a partire, a cercare di salvare se stessi, i propri figli, i propri simili. È il cibo dell’istinto di sopravvivenza, è il motivo per cui migliaia di persone ogni giorno scappano dalle proprie città, dalle proprie case.
I fenicotteri viaggiano di notte è un progetto di Emanuela Laurenti e Francesca Maceroni, due giovani fotografe che nell’estate del 2016 hanno deciso di partire alla volta dell’isola greca di Lesbo per documentare e narrare, con la delicatezza di tinte quasi oniriche, l’attesa infinita, terribile ed estenuante dei migranti.
Come è nata la vostra passione per la fotografia?
E: Il mio reale avvicinamento alla fotografia nasce in realtà molto tardi, da adulta direi, sebbene sia cresciuta tra le immagini di un appassionato zio e quelle di mia sorella gemella: era infatti lei in famiglia, spronata anche dallo zio, ad armeggiare con la macchina fotografica. Io ero quella che preferiva tele e pennelli. Da grande però, per alcune coincidenze professionali, mi sono ritrovata ad avere a che fare io con le immagini (ho lavorato diversi anni nella redazione di una rivista aeronautica) e, grazie all’intuito di un mio ex responsabile e agli stimoli di un carissimo amico, ho iniziato a studiare seriamente la fotografia e a innamorarmene rapidamente per poi decidere di farla diventare la mia professione.
F: Anche io mi sono approcciata tardi alla fotografia professionale. Ho sempre voluto fare questo mestiere. Da adolescente andavo sempre in giro con la compatta nella borsa, ma il coraggio di tentare questa strada seriamente è arrivato intorno ai 26 anni. Prima ho studiato giornalismo e, dopo la laurea, ho deciso di studiare fotografia.
Come nasce il progetto I fenicotteri viaggiano di notte? Cosa vi ha portato a Lesbo, teatro di un’attesa drammatica e interminabile come quella dei migranti? Quali sono le prime impressioni che avete avuto una volta giunte sull’isola?
Il progetto nasce da una reale esigenza da parte di entrambe.
Nasce dalla necessità di comprendere ed osservare da vicino quella che possiamo considerare una vera e propria epopea e verso la quale sentivamo di non essere indifferenti. Non bastava più stare lì a parlarne, sconvolte, o a farci schiacciare, immobili, dalla storia e dalla sofferenza. Dovevamo capire. E contribuire in qualche modo alla narrazione di quei fatti e alla sensibilizzazione. Così abbiamo scelto di raggiungere l’isola di Lesbo, contattando dapprima alcune associazioni, tra le quali Lesvos Solidarity, conosciuta come Pikpa Camp, che ci ha accolte sin da subito come fossimo parte del gruppo. È stata un’esperienza bellissima e, allo stesso tempo, devastante. Ma ci ha convinte di essere dalla parte giusta e sulla giusta “rotta” narrativa.
Conoscere e confrontarsi con tante storie drammatiche non è stato affatto semplice, emotivamente parlando. Se pensiamo alle nostre prime impressioni, pensiamo esattamente al primo giorno sull’isola, a una gelateria vicino al porto e all’incontro con Anod e le due figlie, di 7 e 12 anni. Di Homs. Pensiamo alla loro vivacità come pure a agli occhi calmi e generosi della loro mamma. E pensiamo a un tentativo fallito di controllare le nostre lacrime e la nostra emotività ascoltando la loro storia, la loro voce.
Quando e come avete sviluppato la similitudine, esplicitata efficacemente soprattutto nel filmato del progetto, tra i fenicotteri ed i migranti?
L’idea della similitudine in realtà è nata prima della partenza. Preparandoci al viaggio, abbiamo scoperto che i fenicotteri sono tipici dell’isola e visto che cercavamo una chiave di lettura che fosse distante dalle narrazioni fotografiche fino ad allora realizzate (in considerazione del fatto che si tratta di un argomento senza dubbio inflazionato) abbiamo pensato che potesse essere sensata, immediata e utile soprattutto a un’impronta onirica che desideravamo fosse propria del progetto.
Che tipo di rapporto avete instaurato con i migranti del Pikpa Camp?
Ci siamo fatte conoscere piano piano, giorno dopo giorno. Eravamo sempre lì con loro cercando di partecipare alle loro attività, aiutando laddove servisse o semplicemente conversando. Senza mai anteporre la macchina fotografica. Le immagini sono venute alla fine, dopo pomeriggi di tè e caffè condivisi, di danze, feste e giochi per i bambini. Con alcuni ospiti del Pikpa siamo riuscite a creare un rapporto di fiducia ed empatia, che ci ha permesso poi di scattare senza essere invasive.
La serie di fotografie che compone I fenicotteri viaggiano di notte può essere idealmente suddivisa in due parti: una luminosa, dai colori tenui eppure in qualche modo confusi, sovrapposti, quasi bruciati ed una scura, dove il buio è onnipresente, eppure più nitida. Sono effetti voluti? E se sì, cosa vogliono sottolineare questi espedienti?
Le dicotomie tra onirico e nitido, tra analogico e digitale, giorno e notte, luce e buio servivano a rappresentare il viaggio tremendo che queste persone intraprendono. La continua tensione tra speranza e paura: la speranza di avere una vita migliore e la paura degli abusi, delle torture che subiscono, della morte in mare.
Servono a rappresentare il circolo vizioso in cui restano invischiati, perché partono di notte, confidando nel buio, e arrivano di giorno, dove c’è luce, c’è speranza. Ma quello che li aspetta non è ciò che credevano. E allora il giro ricomincia. Dalle prigioni della Libia, arrivano in un’Europa che non li vuole e non li accoglie, e che preferisce fare accordi disdicevoli con paesi come la Turchia o la stessa Libia, piuttosto che dare loro un’opportunità o, perlomeno, rispettare i loro diritti. Perciò, di nuovo, dalla luce sprofondano nel buio.
Questa immagine mi ha molto colpito: la sovrapposizione tra corpo e paesaggio rende in qualche modo tangibile l’attesa vuota e insostenibile dei migranti. Vi va di raccontarci la storia dietro a questo scatto?
Questa foto è stata scattata un pomeriggio al Pikpa Camp. Una coppia di ragazzi curdi ci aveva invitato a prendere un caffè nella loro casetta. L’ispirazione è venuta mentre sorseggiavamo e parlavamo fuori dalla porta con il “vicinato”. Lo sfondo è il parco del Pikpa, mentre l’uomo di spalle era da poco arrivato al campo con sua moglie e tre bimbe piccole.
Acqua, vento, stridii, fischi e poi silenzio, assordante silenzio: se c’è qualcosa che il filmato aggiunge al progetto è sicuramente il suono. È la prima volta che utilizzate questo mezzo? Che risultati vi ha permesso di ottenere? Quali sono le differenze che riscontrate rispetto alla fotografia, soprattutto nell’ambito documentario?
Ci siamo rese conto da subito che il suono sarebbe stato un elemento fondamentale per tutto il progetto. E tutti i suoni che sentivamo intorno a noi sembravano ricordarcelo costantemente. Il rumore delle cicale, delle navi, dell’acqua, le voci ma anche il silenzio comunicavano esattamente ciò che volevamo raccontare. È un metodo narrativo che ci piace molto e che abbiamo utilizzato anche nell’ultimo lavoro che abbiamo realizzato quest’estate in Albania.