Le interviste immaginarie sono un viaggio intrigante che ci porta ad incontrare, ogni volta, un grande del passato. Cinque domande rivolte con leggerezza per scoprire vita, passioni, progetti, segreti e umanità di questi personaggi, ricostruiti sulle basi del nostro sogno e sulla realtà della storia. Personaggi che si presentano vivi e attuali, ma in tutto rispondenti al loro tempo e alla loro personalità. Per capire veramente come e perché siano così importanti per la nostra cultura.
Incontro oggi nella sua casa parigina, (in cui c’è la sua camera oscura interdetta, pare, a quasi tutti) Dora Maar. Desidero conoscerla da tempo e ora si è presentata un’occasione unica: la recente pubblicazione sul numero 4-5 di Cahiers d’art delle sue immagini che ritraggono Picasso mentre dipinge Guernica. Praticamente un réportage fotografico dove Dora, il cui viso è quello della donna al centro della scena che sorregge la lampada, ci regala la sequenza fotografica che documenta l’evolversi dell’opera di Pablo.
Dora lei è stata definita la musa di Picasso e deve ora la sua meritata notorietà a questa pubblicazione. Ma lei era già famosa per le sue fotografie particolari, raffinate e spesso inquietanti ed io vorrei che mi parlasse dell’inizio di questa passione e della sua carriera di affermata fotografa. Realizza le sue prime e intense immagini a Parigi, dove è nata e dove studia prima all’École et Ateliers d’Arts Décoratifs per diventare pittrice e poi all’École de Photographie per dedicarsi alla fotografia di cui si era innamorata. Dopo la crisi del ‘29, causata dal crollo della borsa di New York, anche a Parigi la vita diviene dura e colma di sofferenza.
Sono passati pochi anni da quel tragico 1929 che ha segnato le vite di tanti uomini e donne nel mondo e già mi pare sia trascorso un secolo. Ricordo che giravo smarrita per la città con la mia Rollei, specialmente nella Zone, una serie di terreni incolti nella vicinanze di Parigi abitati dagli Zonards, gente poverissima che viveva in baracche. Spesso, di fronte a tanta miseria, sofferenza e disperazione, rimanevo quasi bloccata prima di scattare. Mi assalivano, in quei pochi attimi di incertezza, mille scrupoli e mi chiedevo “Sarà giusto fotografare questo momento così triste, così tragico?” Poi scattavo e quasi correvo via. La città era devastata. Donne e uomini disperati, clochard, mamme sole che trascinavano bambini smarriti, povertà e fame. Anche se già da tempo fotografavo, le considero le mie prime vere fotografie, che sono state definite di street photography, un genere nuovo, pare, che chissà se avrà dei proseliti… Nel 1931 ho conosciuto e lavorato con Brassaï, che si era trasferito definitivamente a Parigi nel ’24 e il suo amore per questa città, a cui ha dedicato il suo primo libro “Paris de nuit”, certamente mi ha influenzato. Poi ho aperto il mio studio, in collaborazione con Pierre Kéfer che aveva terminato due anni prima come set decorator “La chute de la maison Usher” il bellissimo film tratto da un racconto di Edgar Allan Poe con la regia di Jean Epstein e Luis Buñel collaboratore alla regia. Sono stati anni di grandi incontri, stimolanti e creativi, facevamo foto di moda per la pubblicità che firmavamo Kéfer-Dora Maar, anche se quasi tutte le scattavo io, ora posso dirlo! Con la mia amata Rolleiflex ho immortalato la mondanità francese che ha fatto capolino sulle riviste come Madame Figaro, Beautés Magazine o Amours de Paris… classe, fama, eleganza e femmes charmantes… ça va sans dire…
Henriette Theodora Markovich, il suo vero nome… lei ha trascorso l’infanzia tra Parigi e Buenos Aires dove suo padre, architetto di origini croate, aveva realizzato importanti edifici dopo l’ideazione del padiglione della Bosnia Erzegovina all’Esposizione universale di Parigi del 1900 e certamente è stata influenzata da queste esperienze di vita. Politicamente vicina ad una sinistra “creativa” è entrata a far parte del movimento surrealista nel gruppo Contre-Attaque creato nel 1935 da Georges Bataille e André Breton dopo la pubblicazione di Appel à la lutte, un comitato di azione antifascista a cui aderirono molti intellettuali tra cui lei. Conosce Michel Leiris, Paul Éluard, i fratelli Jacques e Pierre Prévert, Luis Buñuel e sono già celebri i ritratti che le ha dedicato Man Ray. Fotografa ma anche poetessa, pittrice, attivista politica. Una personalità poliedrica! Poi nel ’33 il suo viaggio solitario a Barcellona e in Costa Brava e tra le sue foto “di strada” ricordo quelle al mercato della Boquería con la vivacità delle venditrici, dei bambini e i pescatori del villaggio di Tossa de Mar, alle porte della Costa Brava.
Ringrazio sempre Man Ray per avermi “immortalata” in bellissimi ritratti che ho incorniciato e, non ci crederà, osservo sempre con immutato stupore quel viso, quasi non fosse il mio e allora mi frullano in testa le sue parole “Fotograferei un’idea piuttosto che un oggetto, e un sogno più che un’idea”. Sono stati anni di intenso lavoro e continua sperimentazione: fotografie, collage, fotomontaggi, sovrimpressioni, sovrapposizioni, solarizzazioni, rayografie… la fotografia come esplorazione di infinite possibilità creative, oniriche e surreali che si allontanano dalla realtà, ma anche puro divertissement inventivo e un po’ geniale. Nel ’35 ho esposto all’Exposition Universelle et Internationale di Bruxelles e alla Exposition Internationale du Surréalisme di Tenerife, organizzata da André Breton e Benjamin Péret, e ricordo che in quell’occasione fu proiettato il film “L’âge d’or” di Dalì e Luis Buñuel che mi aveva colpito per le sue invenzioni stilistiche di un surrealismo dissacrante. E poi la mostra dello studio Saint-Jacques per la Constitution des Artistes Photographes, Fantastic Art, Dada and Surrealism a New York nel ‘36, Objets Surréalistes alla Galleria Charles Ratton, International Surrealist Exhibition tenutasi alle New Burlington Galleries di Londra.
Ora ho ripreso a dipingere, su consiglio di Pablo. Ma non so dire se sono stata io ad abbandonare la pittura o lei ad abbandonare me.
Lei ha citato le parole di Man Ray ma io ricordo le sue: “Chiudere gli occhi al mondo che ci circonda ci permette di aprirli all’inconscio”. Il suo interesse per gli occhi socchiusi, chiusi, impenetrabili e per gli sguardi – e il suo è uno sguardo misterioso e penetrante e forse inaccessibile – rivela l’inquietante visione del reale, quasi una sopportazione della vita che porta con sé l’angoscia dell’essere. Ma anche il corpo, nelle sue fotografie, è sempre un corpo tragico, trafitto da ombre, torsioni. Cito, una per tutte, la foto di Assia, nudo e ombra. E poi l’incontro con Picasso.
Ricordo bene il momento in cui ho fotografato Assia e la sua ombra che era più vera del corpo vero di Assia, più fisicamente presente, un’ombra obesa, carnale, scura e prefigurante un futuro gravido di segnali enigmatici. Così allora ho pensato.
Ho incontrato Pablo per caso, come sempre avvengono gli incontri che trasformano la tua vita. Inaspettati, falsamente casuali ma decisivi per mutazioni, stravolgimenti, metamorfosi e trasmutazioni. La prima volta nel ’35 sul set del film “Le crime de Monsieur Lange” di Jean Renoir e poi sulla terrazza del caffè Les Deux-Magots a Saint-Germain-des-Prés e da allora non ci siamo più lasciati anche se lui continua a vivere in Rue des Grands-Augustins ed io nella casa vicina, dietro l’angolo e posso accedere allo studio di Pablo facilmente. Solo su suo invito, naturalmente! E forse questa vicinanza, che pare una lontananza, a volte è vitale per la mia sopravvivenza. Mi sono trasformata nella sua musa? Sinceramente non lo so.
Si vocifera che lei, seduta da sola ad un tavolino del caffè Les Deux-Magots elegantemente vestita e con le mani inguantate di bianco si colpisse con un coltellino lo spazio tra un dito e l’altro della mano non fermandosi se si feriva e si narra che il famoso poeta Paul Éluard, in compagnia dell’amico Picasso, si fece donare i suoi guanti insanguinati per poi esporli su di una mensola del suo appartamento. Fantasie, leggende? Ma mi parli dei ritratti che le ha fatto Picasso!
La vita stessa di Picasso è una leggenda, noi un po’ ridiamo di questi racconti. Veri? Falsi? Realtà e finzione si fondono sempre nella vita e la nostra poi è un’avventura quotidiana vorticosa, esaltante. Pablo è impetuoso, travolgente e prorompente in tutto: arte, amori, amicizie, furori e dolcezze. Non svelo altro. Quest’anno mi ha dipinta in due ritratti e in quello che amo di più sono seduta su di una sedia a braccioli, in un atteggiamento rilassato e mi vedo sognante. Lo spazio è angusto, quasi una scatola, come per rinchiudere questo mio fuggevole stato di serenità. Il mio volto cubista di fronte e di profilo. Un occhio rosso e uno verde. Le lunghe unghie laccate rosso fuoco mi incantano. Le mani come ali. Io volo via. Le lacrime, il fazzoletto che stringo nella mano, quei blu giallo rosso verde nero pare taglino la tela nella “Donna che piange”. Sono drammatica, ma adoro quel cappellino rosso con fiore blu. Altro io non so dirle, dovrebbe chiedere a Picasso. Quando lo fotografavo mentre dipingeva Guernica ero talmente coinvolta che pensavo di dipingere anche io insieme a lui. Quei silenzi risuonanti dei pensieri di Pablo, quei silenzi violati dai suoi furori, quel suo corpo che diveniva materia, tela, colore, sudore, lacrime, grida, gioia, dolore, sconforto, passione…
Dora le sue parole mi hanno ammutolito e mi spiace perfino rompere questo silenzio magnetico calato tra di noi. Un silenzio che è una nuova presenza. Il ritorno alla pittura ma sempre con la sua Rollei accanto, vero?
È la mia compagna di viaggio ideale. Silenziosa, riservata, fidata, disponibile, scattante, misteriosa e un po’ marziana con quei due grandi occhi sovrapposti in verticale che mi scrutano e mi invitano silenziosamente a partire.
Fotograferò i miei dipinti.