Avvolti da un silenzioso dolore e dalla solitudine, i personaggi di Guglielmo Castelli appaiono smarriti e sospesi tra un momento e l’altro della propria esistenza, persi in una dimensione colorata da tonalità monocromatiche senza tempo e spazio.
Castelli ha cercato di tirar fuori dalla propria anima una dimensione e portarla nella sua arte. Un’arte sintetica ma tragica, delicata ma feroce di significati, intrisa di dolore. La sua indagine artistica comincia dall’infanzia, simbolo dell’incertezza, del dubbio, ma anche della prima conoscenza del mondo.
I personaggi sono in bilico in una dimensione che non conoscono ma che apprestano ad approcciare. L’artista ci parla delle sconfitte e delle vittorie della vita, nell’attimo prima che si possano definire tali. È ritratto l’attimo prima che si sveli tutto. Lasciando tutto in sospeso, anche noi, immedesimati in quei personaggi tanto vicini alla nostra anima.
Un’arte pragmatica ma che lascia intendere il complesso universo quale quello dell’esistenza dell’uomo. Un uomo bidimensionale in attesa della verità, del suo posto nell’ingranaggio.
Guglielmo Castelli, classe ’87, vive a Torino dove si diploma all’Accademia di Belle Arti.
Tra le sue personali si ricordino: “Al di là di ogni ragionevole dubbio” presso la Guidi & Schoen di Genova; “Et ab hic Et ab hoc” alla Galleria Metis-NL di Amsterdam e “Chiama quando arrivi” alla Galleria Église di Torino. Si ricordino anche le sue partecipazioni, come quella alla mostra della XII edizione del Premio Cairopresso il Palazzo della Triennale di Milano. Inoltre è vincitore della residenza degli Artisti presso il Museo d’Arte Contemporanea MACRO di Roma.
Quali sono stati i tuoi inizi dal punto di vista artistico?
Ho iniziato molto presto, ho preso fin da subito con serietà matite e carta. Già a quindici anni ci sono state le prime prove per case editrici che pubblicavano libri per bambini, per la precisione italiane e giapponesi, ma non sono mai riuscito a pubblicare nulla. Il motivo è presto detto: forme troppo fluide, poco contorte, per così dire, rassicuranti; quindi ho abbandonato il mondo dell’infanzia perché di base tifavo per il lupo e non per Cappuccetto Rosso. Successivamente mi sono avvicinato al mondo della moda e sono diventato collaboratore per Vogue Italia lavorando sui giovani designer. Vestivo le mie creature su carta unendo la mia creatività con i visionari mondi dei giovani stilisti in giro per il mondo. È stata una delle esperienze più formative e divertenti degli ultimi anni. Poi arriva l’oggi: sono diventato ufficialmente “artista contemporaneo”.
Come definisci il tuo modus operandi, la tua filosofia?
In continuo mutamento, precisa, seria, anatomicamente scomposta, ma in costante crescita.
Per citare Grossman: ”(…) che tu sia per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”. È questo ciò che per me ed in me è l’arte. In poche parole, è la vita.
Il tema dell’infanzia predomina in gran parte dei tuoi lavori. Com’è mutato questo concetto nel corso della tua crescita artistica e personale?
L’infanzia è il tempo delle “prime volte”: le cadute, la pura curiosità che, per necessità di conoscenza, si tramuta in una sorta di “cattiveria” che mi ha sempre affascinato.
Col passare degli anni, crescendo io, sono cresciuti anche i miei personaggi, sono diventati più adolescenziali, più antropomorfi, meno delineati. E questo perché si comprende che non è tutto sempre definito e percepito nella sua completezza, così l’equilibrismo e la caduta creano spazi sospesi nel tempo dove si può costruire tutto. La caduta è solo l’inizio di un percorso dove l’inserimento su fondi monocromatici determina, contemporaneamente, un’ascesa e una discesa nello stesso istante. Ci si chiede che cosa stia succedendo non tanto al singolo personaggio, ma all’insieme.
La parte più importante del mio lavoro è la costruzione dei rapporti fra figura e sfondo, come se avessi una macchina da presa e sì, c’entrano i miei studi accademici scenografici.
Oltre al tema dell’infanzia, i tuoi lavori sono pervasi da un senso di malinconia. Ci parli del tuo concetto di malinconia?
In realtà credo nella melanconia che è un qualcosa di diverso dalla malinconia. Perché la prima non è ancora patologia, ma elemento imprescindibile di ogni essere umano, è una coperta di Linus dove torniamo indietro, dove riprendiamo parti depositate, dove la foschia del vago prende il sopravvento e rimaniamo lì, in attesa. Quasi in estasi.
I colori sono colori ospedalieri, mischiati con la polvere, che è fuligginosa, bianca. Vaga anch’essa. Cerco di rappresentare l’attimo prima di ogni cosa che è un attimo pieno di silenzio e di grazia.
Qual è la collocazione dei tuoi lavori all’interno dell’attuale momento culturale?
Essendo io molto giovane e facendo pittura, sembra quasi che, soprattutto in questo momento storico/culturale, la pittura debba in qualche modo dimostrare di più rispetto ad altri media. In realtà credo di aver trovato il mio piccolo spazio all’interno di un sistema molto complesso. Uno degli elementi che mi hanno sempre insegnato è quello della riconoscibilità, cosa che, credo, mi appartenga. Sono figlio dei social network con retaggi di cabine telefoniche, un mix interessante.
“Chiama quando arrivi”: una personale organizzata dalla Galleria Église di Torino, la tua città, la tua terra. È presente nelle tue opere in qualche modo?
Torino è casa mia, ma lo è davvero. Non è tanto presente nei lavori, quanto nella modalità in cui lavoro: precisa, determinata e silenziosa. Composta.
Denominatore comune dei tuoi lavori è il concetto di attesa, di precarietà. Queste dimensioni cosa raccontano di te?
In realtà se non dipingessi credo che sarei in analisi da parecchi anni: il colore è per me un tracciato di possibilità, di strade e di prove. Non è facile dipingere perché inevitabilmente si trasmettono parti di te stesso. Le vedi, sono lì, fluidificate con altre forme che, spesso, neanche si era previsto di creare. E ne rimane una passione e una necessità quotidiana, entrando, a ogni pennellata, in quel prezioso e privilegiato silenzio assoluto dove tutto è vero.
Una nuova personale, il 10 Giugno alla Galleria Il Segno di Roma. Evidente è la maturazione nei tuoi lavori. Sapresti ricondurre il come e il quando a un unico momento o è stato un passaggio graduale?
L’inverno scorso mi sono infortunato e ho dovuto per quattro mesi somministrarmi con siringhe svariate dosi di Eparina. L’eparina è un anticoagulante che fluidifica il sangue per evitare che si formino dei trombi. Mi sono illuminato: ho usato la mia pittura, il colore, come fosse Eparina per i miei personaggi, per farli sopravvivere alle loro cadute e ai loro tentativi, per farli riprovare e farli ricadere. E l’ho fatto diluendo il colore, creando livelli e sfumature su altri livelli e sfumature. Ho capito che la pittura non doveva solo essere un mezzo per arrivare ad un risultato, ma ci dovevo entrare dentro, viverla come essere vero e proprio. E così ho fatto un piccolo passo avanti.
In ottobre aprirai una nuova mostra ad Amsterdam, alla galleria Ron Lang Art. Cosa ti aspetti?
Dialogherò con le opere di Lucebert; il fondatore negli anni ’50 del gruppo Cobra in Olanda. Ne sono molto onorato perché nelle sue parole ritrovo molti legami con la mia pittura: ermetismo, attese, visioni oniriche. Il titolo sarà “ In the dark everyone is equally bad ”.