Ci sono esperienze nella nostra quotidianità che ci segnano intimamente, ci lasciano qualcosa dentro, arricchendoci. Esperienze di ogni genere, che possono indurci in un’ideale Catarsi spirituale. Può essere un ricordo, un’emozione, una musica, un particolare avvenimento.
E l’arte? Può regalare all’uomo contemporaneo un’ascesi spirituale?
Ovviamente, ed è proprio ciò che si sperimenta inoltrandosi nella scoperta della mostra personale dello scultore Giuliano Vangi, allestita nei due padiglioni espositivi del Macro Testaccio, a Roma. Questo evento, curato da Gabriele Simongini, progettato dall’architetto Mario Botta, ha portato nelle architetture industriali del Museo le sculture figurative di Vangi, artista ottantatreenne, insignito in Giappone del Praemium Imperiale nel 2002 e poco conosciuto dal pubblico italiano.
Le opere, disposte lungo i due padiglioni, seguono un percorso evoluzionistico del pensiero dell’artista stesso, al cui centro vi è l’uomo di oggi: un uomo universale; ci siamo noi, la nostra solitudine, la violenza, la rassegnazione e il bisogno di speranza.
L’ingresso è classico, due sculture a latere, quasi fossero propilei di un tempio, ci invitano a procedere. Sono Ulisse e Persona, statue possenti, sgusciate e modellate da blocchi di granito che guidano il nostro sguardo su una scena truce, che si staglia, luminosa, vibrante, su un fondale argenteo: è una decapitazione. Così attuale, così realistica che ci scuote internamente, quasi potesse essere una premonizione, un monito, ed è il titolo stesso dell’opera a farci riflettere: “C’era una volta”.
L’ atmosfera è plumbea, il colore dominante è il nero degli allestimenti e delle sculture che, se fruite a 360°, mostrano la loro seconda natura, una natura amorfa, fatta di gole profonde, orridi e cretti che ci fanno immaginare aspri paesaggi.
Camminando, sperimentiamo le differenti sfaccettature della medesima natura umana: la violenza verso i propri simili, le lotte fratricide con Ares e Il Vincitore, ma anche la violenza verso gli animali simboleggiata da Uomo e Animale e Uomo e Caprone ed infine la violenza verso la società con la colossale opera intitolata Veio.
C’è forse qualcosa di diverso dalla quotidianità che ognuno di noi vive? Forse sì, perché a differenza dei telegiornali, delle radio, dei new media qui, ogni gruppo statuario invita ed obbliga ad una pausa e non possiamo sfuggirgli. Non possiamo che riflettere e parlare di temi profondi che segnano la natura umana a cui oggi siamo fin troppo “abituati”.
Il punto di unione tra i due padiglioni è una scultura corale in bronzo: Katrina, una moderna Zattera della Medusa di Géricault, che vuole rappresentare il clìmax del rapporto uomo|natura quello in cui la natura si ribella e vince, inesorabilmente, sull’uomo seminando distruzione.
Il sentimento che si respira in questo padiglione è diverso, lo percepiamo immediatamente dal mutamento cromatico, lo spazio è costruito con pannelli espositivi blu klein, i temi che plasmano le sculture sono mutati così come lo sono i materiali.
È il padiglione dei metalli e del legno. Le statue non sono altro che momenti della nostra contemporaneità.
Ecco quindi Ragazzo in piedi, un uomo che digrigna i denti e stringe i pugni, arrabbiato con il mondo stesso in cui vive, per la mancanza di sicurezza, di prospettive. A fianco, Duemilaundici un Indignado Madrileño fissato nella materia durante uno slancio sovversivo che ci fa pensare alla possanza di Zeus o di Poseidone di Campo Artemisio.
Successivamente una foresta di uomini soli, la solitudine è l’elemento conduttore nella poetica di Vangi, che ci danno le spalle mentre con il loro sguardo contemplano un paesaggio lontano che altro non è che un desiderio, un anelito, un soffio di speranza.
Speranza che finalmente si concretizza nell’unica scultura femminile della mostra: Ragazza con i capelli biondi.
Una visione angelica che si erge con la sua gracilità, sullo sfondo oro, bionda, vestita di bianco, incarnazione di una possibilità, di positività che permette al visitatore di prendere fiato e di riflettere sulla necessità di amore e speranza che oggi ci accomuna.
Forse solo uno scultore che non possiamo definire “contemporaneo”, nel senso stretto del termine, poteva regalarci un lieto fine, forse proprio la sua lunga esperienza del mondo lo distoglie dal dilagante pessimismo che avvolge i più giovani, artisti e non.
O forse, rimettendoci alle parole di Arturo Martini: “L’arte non è interpretazione, ma trasformazione”, ed è proprio di questa trasformazione che sentiamo il bisogno.