Era la fine degli anni ’70, era New York, tutti avevano qualcosa da dire e tutti volevano essere famosi.
Erano gli anni del Mudd Club e del Club 57, gli anni in cui, come scrive Davide Byrne, “a New York succedevano le cose”. Erano gli anni che avrebbero cambiato per sempre la nostra società e in particolare il mondo dell’arte.
Se fino a quel momento l’obiettivo degli artisti era stato esporre le proprie opere nei grandi musei, adesso il mercato dell’arte si sposta nelle gallerie che sempre più numerose iniziano ad affollare i vecchi quartieri malfamati di Lower Manhattan.
Vendere e comprare arte diventa una fonte di investimento e un passatempo per i ricchi di Uptown, che durante i fine settimana riempiono le strade, gli spazi espositivi e gli atelier dell’East Village, di Soho e di Tribeca alla ricerca dell’opera dell’ultimo artista emergente da esporre nei loro loft, o da rivendere al doppio del prezzo.
L’arte è diventata di moda.
Personaggi come Charles Saatchi, Mary Boone e Bruno Bischofberger sono i veri protagonisti di questo nuovo mondo: galleristi e collezionisti con il potere di decretare o meno il successo di un artista influenzando così l’andamento del mercato dell’arte.
Giovani writer come Keith Haring e Kenny Scharf vengono prelevati dalle stazioni delle metropolitane ormai tappezzate dai loro graffiti e trasportati in una realtà che fino ad allora era stata riservata solo alle rock star e alle celebrità dello show business.
Era il mondo di cui Jean-Michel Basquiat voleva far parte a tutti i costi. Voleva essere famoso, voleva che il mondo “bianco” dell’arte si accorgesse di lui e del suo talento.
“Da quando avevo 17 anni ho sempre pensato che sarei diventato una star. Pensavo ai miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix…avevo un’idea romantica di come le persone diventassero famose.”
Jean-Michel Basquiat nasce nel 1960 in un quartiere residenziale di Brooklyn da padre haitiano e madre di origini portoricane. Inizia a disegnare fin da piccolo, ispirato dai cartoni animati della televisione, dal famoso volume di anatomia “Grey’s Anatomy”(che gli venne regalato durante un ricovero in ospedale), e dai pomeriggi passati con la madre nei musei della città.
Espulso da più di una scuola, nel 1976 inizia a frequentare la City-as-School, un istituto pubblico nel West Village. È qui che Basquiat conosce Al Diaz, con il quale crea SAMO (the SAME Old shit), critica e risposta al sistema di valori sociali da cui i due giovani artisti non si sentono rappresentati, “SAMO is everything, everything is SAMO. SAMO the religion without guilt and much more”.
La società alla quale si ribellano è in realtà la stessa da cui Basquiat vuole farsi notare; le strade dei quartieri più alla moda, da Soho a Tribeca, iniziano presto a riempirsi di frasi firmate con questo acronimo: “SAMO as a new art form. SAMO save idiots. SAMO as an alternative to God.”
Jean-Michel viene notato e SAMO muore l’anno successivo.
Nel 1978 abbandona definitivamente la casa dei genitori, inizia a partecipare ad acune mostre collettive e arriva, in brevissimo tempo, ad essere uno degli artisti maggiormente ambiti dai galleristi più influenti del momento.
Il bambino prodigio è diventato famoso e tutti ne vogliono un pezzo. Si ritrova ad essere circondato dalle figure più interessanti della scena culturale newyorkese e mondiale: Julian Schnabel, Vincent Gallo, David Byrne, Iggy Pop, Andy Warhol. Galleristi e collezionisti fanno a gara per rappresentarlo e acquistare i suoi quadri. Il mondo su cui ha cercato disperatamente di fare colpo gli ha spalancato le sue porte.
Ma tutto gira a una velocità difficile da sostenere per il giovane Basquiat. La gallerista Annina Nosei, che fu la prima ad offrirgli uno spazio in cui lavorare, vende le sue opere ai collezionisti che frequentano l’atelier dell’artista, indipendentemente dal fatto che egli le consideri complete o meno.
In cambio della celebrità a Jean-Michel viene chiesta solo una cosa: produrre, produrre, produrre. L’arte è diventata un tramite, il mercato l’obiettivo.
In occasione di una mostra organizzata proprio nella galleria della Nosei, Vincent Gallo osserva:
“You could see at that point that…he was having his ass kissed by people who would have a hundred percent disregarded him in every other way. It was the first time I realized that an artist was the only person who could kind of move through the classes as an outsider”.
È la stella del momento, eppure continua a sentirsi un emarginato, un nero nel mondo dei bianchi.
Il disagio, le angosce e i demoni che lo accompagnano da tutta la vita prendono forma nei suoi dipinti: istintive, infantili, grottesche immagini affollano le sue opere. Un’arte analfabeta, come lui stesso la definisce; scrive e dipinge su porte, muri, oggetti; cammina sulle tele, le usa per appuntare idee, per segnare i menu dei take-away, ci mangia sopra. Come un bambino, disegna i suoi idoli: Sugar Ray Robinson, Muhammed Ali, Charlie Parker, Miles Davis.
E poi scritte, scritte ovunque: sottolineate, contornate, cancellate.
La frase “Most young kings get thier head cut off”, riportata in un angolo dell’opera “Charles the first” e dedicata proprio a Charlie Parker, è sintomatica della scelta dei suoi eroi: neri, vittime del razzismo o di se stessi e del loro spregiudicato stile di vita. Sono i personaggi a cui crede di somigliare, quelli in cui si rispecchia.
Ogni cosa è per lui fonte di ispirazione, con infantile ingenuità attinge da tutto ciò che lo circonda: simboli, di cui la moderna società è impregnata, notizie dei telegiornali, persone che incontra, ricordi. La sua mente è un ricettacolo di input di ogni genere che rielabora e restituisce sulla tela con il suo inconfondibile stile.
Jean-Michel Basquiat è stato uno dei risultati più emblematici di quel sistema che si impose a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, un sistema fatto di eccessi, contraddizioni e ipocrisia.
Fu portato all’apice del successo e poi lasciato cadere, solo. Perché era così che funzionava. Venne trovato morto nel suo appartamento il 12 agosto del 1988, a soli 27 anni, consumato dall’aver ottenuto ciò che aveva sempre voluto.